Blog della sezione di Massa Carrara del Partito Comunista dei Lavoratori

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martedì 18 ottobre 2011

LA LORO MORALE E LA NOSTRA di Lev Trotzky



Lev Trotsky
LA LORO MORALE E LA NOSTRA

Evaporazione della morale

Nei periodi in cui la reazione trionfa, si vedono i signori democratici, socialdemocratici, anarchici e gli altri rappresentanti della sinistra, secernere moralità in dose doppia, così come gli individui traspi-rano più copiosamente quando hanno paura. Ripetendo a modo loro i dieci comandamenti o il discorso della montagna, tali moralisti si rivolgono meno alla reazione trionfante che ai rivoluzionari perseguita-ti, i cui «eccessi» e i principi «immorali» «fomentano» la reazione e le forniscono una giustificazione morale. Vi sarebbe tuttavia un mezzo elementare, ma sicuro, per evitare la reazione: lo sforzo interiore, la rinascita morale. Campioni di perfezione etica vengono distribuiti gratuitamente in ciascuna delle re-dazioni interessate.
Codesta predicazione, tanto ampollosa quanto falsa, ha la sua base sociale – di classe – nella pic-cola borghesia intellettuale. La sua base politica sta nell’impotenza e nello smarrimento di fronte alla reazione. Base psicologica: il desiderio di ovviare alla propria inconsistenza mettendosi una barba po-sticcia da profeta.
Il procedimento prediletto dal filisteo moralizzatore consiste nell’identificare i modi d’agire della rivoluzione e della reazione. Talune analogie formali ne garantiscono il successo. Lo zarismo e il bolsce-vismo divengono gemelli. E’ del pari possibile scoprire nel fascismo e nel comunismo due gemelli. Si può fare una lista dei caratteri comuni al cattolicesimo o al gesuitismo e al comunismo. Per parte loro, Hitler e Mussolini, avvalendosi di un metodo affatto simile, dimostrano che il liberalismo, la democrazia e il bolscevismo non sono che le diverse manifestazioni di uno stesso male. L’opinione che lo stalinismo e il trotskismo siano «in fondo identici» trova ormai la più vasta udienza. Essa fa concordi i liberali, i demo-cratici, i pii cattolici, gli idealisti, i pragmatici, gli anarchici e i fascisti. Se gli staliniani non sono in grado di unirsi a quest’altro «Fronte popolare», ciò è dovuto a uno scherzo del caso: essi sono per l’appunto troppo occupati a sterminare i trotskisti.
Tali accostamenti e tali identificazioni sono essenzialmente contraddistinti dall’ignoranza com-pleta dei fondamenti materiali propri alle varie tendenze, vale a dire della loro natura sociale e, per con-seguenza, della loro funzione storica oggettiva. Le varie tendenze, vengono, per contro, valutate e clas-sificate attenendosi a motivi esterni, secondari, e il più delle volte secondo il loro atteggiamento verso questo o quel principio astratto al quale il classificatore attribuisce professionalmente un significato particolare. Per il papa, i massoni, i darwiniani, i marxisti e gli anarchici sono affratellati al sacrilegio, in quanto che respingono tutti l’Immacolata Concezione. Per Hitler, il liberalismo e il marxismo, ignorando entrambi «il sangue e l’onore», sono gemelli. Gemelli per il democratico, il fascismo e il bolscevismo, poiché rifiutano d’inchinarsi al suffragio universale. Eccetera.
I tratti comuni alle tendenze così accostate sono innegabili. Ma lo sviluppo della specie umana non si esaurisce né col suffragio universale, né col «sangue e l’onore», né col dogma dell’Immacolata Concezione: questo è il punto. Il divenire storico è innanzitutto lotta di classe, e avviene che classi diffe-renti impieghino, per fini differenti, mezzi analoghi. Gli eserciti belligeranti sono sempre più o meno simmetrici: se non ci fosse nulla di comune nella loro maniera di combattere, non potrebbero mai addi-venire ad uno scontro diretto.
Il contadino o il bottegaio incolto, qualora si trovi preso fra due fuochi, senza comprendere le cause e la portata della battaglia in corso fra il proletariato e la borghesia, considera le due parti in campo con eguale odio. Che cosa sono dunque tutti questi moralisti democratici? Gli ideologi degli strati intermedi capitati – o timorosi di capitare – fra due fuochi. I profeti di questo genere sono in particolare caratterizzati dal loro distacco nei confronti dei grandi moti della storia, dal conservatorismo retrogrado del loro pensiero, dalla contentezza d’essere mediocri e dalla più primitiva pusillanimità politica. I moralisti desiderano sopra ogni altra cosa che la storia li lasci in pace coi loro libri, le loro rivistine, i loro abbonati, il loro buon senso e le loro regole. Ma la storia non li lascia in pace. Ora da sinistra, ora da destra, essa gli fracassa le costole. Salta agli occhi: rivoluzione e reazione, zarismo e bolscevismo, stalinismo e trotskismo sono fratelli gemelli! Chi ne dubitasse, si degni di palpare, sul cranio dei moralisti, le loro bozze simmetriche di destra e di sinistra ….

Amoralismo marxista e verità eterne

Il rimprovero più frequente e più efficace che si muove all’«amoralismo» bolscevico trae la sua forza dalla pretesa regola gesuitica del bolscevismo: il fine giustifica i mezzi. A partire dalla quale facil-mente si giunge a questa conclusione: i trotskisti, al pari di tutti i bolscevichi (o marxisti), negano i prin-cipi della morale, sicché non vi è alcuna differenza sostanziale fra trotskismo e stalinismo. Come volevasi dimostrare.
Un ebdomadario americano, per conto suo non poco cinico e volgare, ha aperto una piccola in-chiesta sulla morale del bolscevismo, destinata – secondo l’usanza – a servire insieme la morale e la pubblicità. L’inimitabile Herbert Wells, la cui omerica sufficienza supera costantemente la pur straordi-naria fantasia, si è affrettato a esprimere la sua solidarietà con gli snob reazionari del Common Sense. Ciò è nell’ordine delle cose. Ma quegli stessi che hanno risposto all’inchiesta prendendo le difese del bolscevismo non l’hanno fatto senza avanzare timide riserve. Certo i principi del bolscevismo sono catti-vi, cionondimeno è possibile trovare fra i bolscevichi degli uomini eccellenti (Eastman). In verità, vi sono degli «amici» che sono più pericolosi dei nemici.
Se vogliamo prendere sul serio quelli che ci censurano, dovremmo innanzitutto chiederci quali sono i loro principi privati di morale. Domanda che resterebbe – è indubbio – senza risposta … Ammet-tiamo pure che né il fine personale né il fine sociale possano giustificare i mezzi. In tal caso, occorrereb-be cercare altri criteri al di fuori della società, quale essa è fatta dalla storia, e dai fini suscitati dal suo stesso sviluppo. E dove? In cielo, se non in terra. I preti hanno scoperto da lungo tempo nella rivelazione divina i canoni infallibili della morale. I pretucoli laici sermoneggiano sulle verità eterne della morale senza indicare qual è il loro riferimento originale. Siamo in diritto di concludere che se quelle verità so-no eterne, esse sono anteriori all’apparizione del pitecantropo sulla terra e addirittura alla formazione del sistema solare. E allora, da dove vengono? La teoria della morale eterna non può fare a meno di Dio.
I moralisti di tipo anglo-sassone, nella misura in cui non si accontentano di un utilitarismo razio-nalista – l’etica del contabile borghese – si presentano come i discepoli consci o inconsci del visconte di Shaftsbury, che all’inizio del XVIII sec. deduceva i giudizi morali da un senso particolare, il senso morale innato nell’uomo. Posta al di sopra delle classi, la morale conduce inevitabilmente al riconoscimento di una sostanza particolare, di un senso morale assoluto che non è altro che timido pseudonimo filosofico di Dio. La morale indipendente dai «fini», vale a dire dalla società – che la si deduca dalle verità eterne o dalla «natura umana» –, in fin dei conti non è che un aspetto della «teologia naturale». I cieli riman-gono la sola posizione fortificata da cui si possa muover guerra al materialismo dialettico.
Alla fine del secolo scorso, si formò in Russia tutta una scuola «marxista» che si proponeva di completare la dottrina di Marx, aggiungendovi un principio morale autonomo, superiore alle classi (Struve, Berdiaev, Bulgakov e altri …). I suoi fautori prendevano naturalmente le mosse da Kant e dal suo imperativo categorico. Come conclusero? Struve, al giorno d’oggi, è un ex ministro del barone Wrangel e un buon figlio della Chiesa; Bulgakov è prete ortodosso; Berdiaev interpreta in parecchie lingue l’Apocalisse. Metamorfosi a prima vista tanto inattese non si spiegano con l’«anima slava» – l’anima di Struve essendo, del resto germanica – ma con l’ampiezza della lotta sociale in Russia. L’orientamento sostanziale di tali metamorfosi è, in effetti, internazionale.
In filosofia, l’idealismo classico, nella misura in cui tendeva a secolarizzare la morale, ossia a e-manciparla dalla sanzione religiosa, costituì un immenso progresso (Hegel). Ma, strappata ai cieli, la morale aveva bisogno di radici terrestri. Trovare queste radici fu uno dei compiti del materialismo. Dopo Shaftbury, vi fu Darwin; dopo Hegel, Marx. Ai nostri giorni, invocare le «verità eterne» della morale si-gnifica voler far tornare indietro il pensiero umano. L’idealismo filosofico non è che una tappa: dalla re-ligione al materialismo o, al contrario, dal materialismo alla religione.

«Il fine giustifica i mezzi»

L’ordine dei Gesuiti, fondato nella prima metà del XVI secolo per combattere il protestantesimo, non insegnò mai che «qualsiasi» mezzo, fosse pure criminoso dal punto di vista della morale cattolica, è ammissibile, purché serva al raggiungimento della meta, ossia al trionfo del cattolicesimo. Questa dot-trina contraddittoria e psicologicamente inconcepibile, venne attribuita malignamente ai Gesuiti dai lo-ro avversari protestanti – e, talora, cattolici – che, per quel che li riguardava, non stavano tanto a guar-dare per il sottile sulla scelta dei mezzi atti a raggiungere i «loro» fini. I teologi gesuiti, preoccupati, come quelli delle altre scuole, dal problema del libero arbitrio, insegnavano in realtà che un mezzo può essere indifferente in se stesso, ma che la giustificazione o la condanna di un dato mezzo dipende dalla sua finalità. Un colpo di fucile è in sé indifferenziato; rivolto a un cane idrofobo che minaccia un bambi-no, è una buona azione; tirato per uccidere o usare violenza, è un delitto. I teologi dell’ordine non vole-vano significare niente più che questi luoghi comuni. Quanto alla loro morale pratica, i Gesuiti formava-no un’organizzazione militante, chiusa, rigorosamente centralizzata, aggressiva, pericolosa non soltanto per i suoi nemici, ma altresì per i suoi alleati. A motivo della loro psicologia e dei loro metodi d’azione, I Gesuiti dell’epoca si distinguevano dal curato ordinario come i guerrieri della Chiesa si distinguevano dai loro bottegai. Non abbiamo alcuna ragione di ideologizzare gli uni o gli altri, ma sarebbe assoluta-mente indegno il considerare il guerriero fanatico con gli occhi del bottegaio stupido e pigro.
Restando nel campo delle comparazioni meramente formali o psicologiche, si può dire che i bol-scevichi stanno ai democratici e ai socialdemocratici di qualsiasi sfumatura così come i Gesuiti stavano alla placida gerarchia ecclesiastica. A paragone dei marxisti rivoluzionari, i socialdemocratici e i sociali-sti di centro appaiono dei retrogradi o, paragonati ai medici, dei praticoni. Non c’è una questione che essi non abbiano indagato a fondo; essi credono al potere degli esorcismi e, scansando timorosamente le difficoltà, ne attendono il miracolo. Gli opportunisti sono i tranquilli rivenduglioli dell’idea socialista, mentre i bolscevichi ne sono i militanti convinti. Di qui, l’odio che li investe e la calunnia di cui li imbrat-tano quegli uomini che possiedono, in gran copia i loro stessi difetti – condizionati dalla storia – senza avere una sola delle loro qualità.
La comparazione fra Gesuiti e bolscevichi permane quindi assai unilaterale e superficiale; essa appartiene più alla letteratura che alla storia. Secondo i caratteri e gli interessi delle classi che li appog-giavano, i Gesuiti rappresentavano la reazione, e i protestanti il progresso. I limiti di questo progresso, a loro volta, erano rivelati immediatamente dal verbo protestante. La dottrina del Cristo, restituita «alla sua purezza», non impedì affatto al borghese Luther di incitare allo sterminio dei contadini in rivolta, quei «cani arrabbiati». Il dottor Martin considerava visibilmente che «il fine giustifica i mezzi» prima che tale regola venisse attribuita ai Gesuiti. Per parte loro, i Gesuiti, rivaleggiando coi protestanti, s’adattarono a grado a grado allo spirito della società borghese e non conservarono dei loro tre voti – di povertà, di castità e d’obbedienza – che l’ultimo, in una forma d’altro canto considerevolmente attenua-ta. Dal punto di vista dell’ideale cristiano, la morale dei Gesuiti cadde tanto in basso che essi cessarono d’essere dei Gesuiti. I guerrieri della Chiesa ne divennero i burocrati e, come tutti i burocrati, dei furfanti matricolati.

Gesuitismo e utilitarismo

Questi cenni sommari dovrebbero far risaltare a sufficienza quanta ignoranza e quanta mediocri-tà occorrano per prendere sul serio l’opposizione al principio «gesuitico»: «il fine giustifica i mezzi», di un altro, ispirato da una morale più elevata, evidentemente, secondo il quale ciascun «mezzo» reca la sua brava etichetta morale, così come, nei grandi magazzini, le merci vendute a prezzo fisso. E’ sorpren-dente che il buon senso del filisteo anglo-sassone riesca a indignarsi del principio «gesuitico» pur ispi-randosi all’utilitarismo, così caratteristico della filosofia inglese. Ora, il criterio di Bentham e di John Mill, «la più grande felicità possibile per il maggior numero possibile («the greatest possible happiness of the greatest possible number») significa appunto: i mezzi che servono al bene comune, fine supremo, sono morali. Di modo che la formula dell’utilitarismo anglo-sassone coincide perfettamente col princi-pio «gesuitico» che il fine giustifica i mezzi. L’empirismo, è chiaro, trova la sua ragione d’essere quaggiù nello sciogliere la gente dall’obbligo di congiungere i due capi di un ragionamento.
Herbert Spencer, il cui empirismo aveva beneficiato del vaccino contro il vaiolo, insegnava che l’evoluzione della morale parte dalle «sensazioni» e giunge alle «idee». Le sue sensazioni impongono il criterio «di un soddisfacimento futuro più durevole e più elevato». Il criterio morale, qui, è ancora quel-lo del «piacere» o della «felicità», ma il contenuto ne è stato allargato e approfondito tramite il concet-to d’evoluzione. Herbert Spencer in tal modo mostra, grazie ai metodi del suo utilitarismo «evoluzioni-sta», che il principio «il fine giustifica i mezzi» non ha nulla d’immorale.
Sarebbe nondimeno ingenuo aspettarsi che detto principio valga a far luce sulla questione prati-ca seguente: che cosa si può e che cosa non si può fare? Il fine che giustifica i mezzi provoca d’altronde la domanda: che cosa giustifica il fine? Nella vita pratica come nel moto della storia il fine e i mezzi cambiano incessantemente di posto. La macchina in costruzione è il «fine» della produzione, per diveni-re poi, una volta installata nell’officina, un «mezzo» di produzione. La democrazia, in talune epoche, è il «fine» perseguito nella lotta di classe. Di cui diviene in seguito il «mezzo». Senza avere nulla d’immorale, il principio attribuito ai gesuiti non risolve il problema morale.
L’utilitarismo «evoluzionista» di Spencer ci lascia parimenti senza risposta, a mezza strada, giac-ché egli tenta, seguendo Darwin, di riassorbire la morale concreta, storica, entro i bisogni biologici o gli «istinti sociali» propri alla vita animale gregaria, mentre la nozione stessa di morale nasce soltanto in un ambiente diviso dagli antagonismi sociali, vale a dire nella società divisa in classi.
L’evoluzionismo borghese si ferma, colpito da impotenza, sulla soglia della società storica, non volendo ammettere che la lotta di classe sia la molla principale dell’evoluzione delle forme sociali. La morale non è che una delle funzioni ideologiche di tale lotta. La classe dominante impone i suoi fini alla società e l’abitua a considerare come immorali i mezzi che si oppongono a tali fini. Tale è la missione es-senziale della morale ufficiale. Essa persegue lo scopo della «più grande felicità possibile» non del più grande numero, ma di una minoranza tuttavia decrescente. Un regime siffatto, fondato sulla sola costri-zione, non durerebbe una settimana. Gli è indispensabile il cemento dell’etica. La fabbricazione di que-sto cemento tocca ai teorici e ai moralisti piccolo-borghesi. Essi possono sciorinare tutti i colori dell’arcobaleno; tirate le somme, essi non sono che gli apostoli dello schiavismo e della sottomissione.

Sulle «regole obbligatorie della morale»

L’uomo che non voglia né tornare a Mosè, al Cristo o a Maometto, né contentarsi di un arlecchino eclettico, deve riconoscere che la morale è un prodotto dello sviluppo sociale; ch’essa non ha niente di invariabile; che serve agli interessi della società, che tali interessi sono contraddittori; che la morale ha, più di qualsiasi altra forma di ideologia, un carattere classista.
Tuttavia, non esistono forse delle regole elementari di morale elaborate dal progredire dell’intera umanità e che sono necessarie alla vita dell’intera collettività? Certo, ve ne sono, ma la loro efficacia è alquanto instabile e ristretta. Le norme «imperative per tutti» sono tanto meno efficaci quando la lotta di classe si fa più aspra. La guerra civile, forma culminante della lotta di classe, abolisce violentemente qualsiasi legame morale fra le classi nemiche.
Posto in condizioni «normali», l’uomo «normale» rispetta il comandamento: «Tu non ucciderai!». Ma se egli uccide nelle circostanze eccezionali della legittima difesa, la giuria lo proscioglie. Se, al con-trario, egli cade vittima di un’aggressione, l’aggressore sarà ucciso per effetto di una sentenza. La neces-sità di una giustizia e della legittima difesa discende dall’antagonismo degli interessi. Per quel che con-cerne lo Stato, esso si limita in tempo di pace a fornire un crisma legale all’esecuzione di determinati in-dividui per trasformare, in tempo di guerra, il «Tu non ucciderai!» in un comandamento diametralmente opposto. I governi più umanitari che «detestano» la guerra in tempo di pace fanno, in tempo di guerra, dello sterminio della frazione più vasta possibile dell’umanità, il dovere dei loro eserciti.
Le regole «generalmente ammesse» della morale conservano il carattere algebrico, ossia indefi-nito, che è loro proprio. Esse esprimono soltanto il fatto che l’uomo, nel suo comportamento individuale, è legato da talune norme generali, in quanto egli appartiene alla società. L’«imperativo categorico» di Kant è la più alta generalizzazione di tali norme. Nonostante la posizione eminente che ha codesto imperativo nell’Olimpo filosofico, esso non ha nulla, assolutamente nulla di categorico, non avendo nulla di concreto. E’ una forma priva di contenuto.
La causa della vuotaggine delle forme obbligatorie per tutti è che, in qualsivoglia circostanza im-portante, gli uomini hanno un senso assai più immediato e profondo della loro appartenenza a una clas-se sociale piuttosto che alla «società ». Le norme di morale «obbligatoria per tutti» ricevono in realtà un contenuto di classe, in altri termini: antagonistico. La norma morale è tanto più categorica in quanto essa è meno «obbligatoria per tutti». La solidarietà operaia, soprattutto durante gli scioperi o sulle barricate, è infinitamente più categorica della solidarietà umana in generale.
La borghesia, la cui coscienza di classe è assai superiore, per la sua pienezza e la sua intransigen-za, a quella del proletariato, ha un interesse vitale a imporre la «sua» morale alle classi sfruttate. Le norme concrete del catechismo borghese vengono camuffate con l’aiuto di astrazioni morali poste esse stesse sotto l’egida della religione, della filosofia o di quella cosa ibrida che vien detta «buon senso». L’invocazione rivolta alle norme astratte non è un errore disinteressato della filosofia, ma un elemento necessario nel meccanismo della lotta di classe. Mettere in luce quest’inganno, la cui tradizione risale a qualche millennio addietro, è il primo dovere del rivoluzionario proletario.

La crisi della morale democratica

Per assicurare il trionfo dei loro interessi nelle grandi questioni, le classi dominanti si vedono co-strette a cedere qualcosa sulle questioni secondarie: fin tanto che, beninteso, queste concessioni riman-gono vantaggiose. Al tempo della massima espansione del capitalismo e soprattutto negli ultimi decenni precedenti la guerra, queste concessioni, almeno al riguardo degli strati superiori del proletariato, fu-rono affatto reali. L’industria era in pieno sviluppo. Il benessere delle nazioni civili – e in particolare delle loro masse operaie – andava crescendo. La democrazia sembrava incrollabile. Le organizzazioni operaie s’ingrandivano: e similmente le tendenze riformiste. I rapporti fra le classi si ammorbidivano, perlomeno esteriormente. Di conseguenza, nelle relazioni sociali, a fianco delle norme democratiche e delle abitudini connesse alla pace sociale, venivano a configurarsi delle regole elementari di morale. Si aveva l’impressione di vivere entro una società in procinto di divenire sempre più libera, giusta e umana. Il «buon senso» reputava infinita la curva ascendente del progresso.
Non l’era; la guerra scoppiò, seguita da sconvolgimenti, crisi, catastrofi, epidemie, ritorni alla barbarie. La vita dell’umanità si trovò in un vicolo cieco. Gli antagonismi di classe, aggravandosi, venne-ro in piena luce. L’uno dopo l’altro, si videro saltare i meccanismi protettivi della democrazia. Le regole elementari della morale si rivelarono ancor più fragili delle istituzioni democratiche e delle illusioni ri-formiste. La menzogna, la calunnia la corruzione, la violenza, l’assassinio presero proporzioni inaudite. Gli spiriti semplici, confusi, credettero trattarsi delle conseguenze momentanee della guerra. Quei di-sordini erano e restano invece i sintomi del declino dell’imperialismo *. La cancrena del capitalismo por-ta con sé quella della società moderna, diritto e morale compresi.
Il fascismo, nato dalla bancarotta della democrazia posta di fronte ai compiti assegnati dall’imperialismo, è una «sintesi» dei peggiori mali di quest’epoca. Resti di democrazia sopravvivono soltanto nelle aristocrazie capitalistiche più prospere: per ciascun «democrate» inglese, francese, belga, lavora un certo numero di schiavi coloniali; «sessanta famiglie» governano la democrazia negli Stati U-niti … E le componenti del fascismo crescono rapidamente in tutte le democrazie. A sua volta, lo stalini-smo è il prodotto di una pressione imperialistica su uno Stato operaio retrogrado e isolato; esso completa, quindi, pressoché simmetricamente, il fascismo.
Mentre i filistei idealisti – e in primo luogo, naturalmente, gli anarchici – denunciano infaticabil-mente l’«amoralità» marxista, i trusts americani, stando a John Lewis, investono più di ottanta milioni di dollari all’anno per combattere la «demoralizzazione» rivoluzionaria, ossia in spese di spionaggio, corru-zione di operai, imposture giudiziarie e omicidi. L’imperativo categorico segue talvolta, per attingere il suo trionfo, percorsi assai tortuosi!
Notiamo, per scrupolo d’equità, che i più sinceri e allo stesso tempo i più gretti fra i moralisti pic-colo-borghesi vivono ancor oggi del ricordo idealizzato dello ieri e nella speranza di un ritorno a questo ieri. Essi non comprendono che la morale è in funzione della lotta di classe; che la morale democratica rispondeva ai bisogni del capitalismo liberale e progressista; che la lotta di classe accanita che domina la nuova epoca ha definitivamente, irrevocabilmente, distrutto questa morale; che la morale del fascismo, da una parte, e quella della rivoluzione proletaria, dall’altra, vi si sostituiscono in due maniere opposte.

* Il termine «imperialismo» vien qui usato nella sua accezione marxista: esso designa il capitalismo dei monopoli, caratterizzato dall’’esportazione dei capitali e della suddivisione del mondo. Cfr. Lenin, L’imperialismo, fase estrema del capitalismo (1916). [nota di Victor Serge].

Il «buon senso»

La democrazia e la morale «generalmente ammessa» non sono le sole vittime dell’imperialismo. Il buon senso «innato in tutti gli uomini» è la sua terza vittima. Questa forma inferiore dell’intelletto, ne-cessaria in tutte le condizioni, è altresì sufficiente, in talune condizioni. Il capitale base del buon senso è composto di conclusioni elementari tratte dall’esperienza umana: Non mettere le dita nel fuoco, prefe-rite la retta via, non disturbate i cani che dormono …, eccetera, eccetera. In un ambiente sociale stabile, il buon senso si rivela sufficiente per fare del commercio, curare degli ammalati, scrivere articoli, dirige-re un sindacato, votare in parlamento, fondare una famiglia, crescere e moltiplicare. Ma non appena es-so tenta di uscire dai suoi confini naturali per intervenire sul terreno delle generalizzazioni più comples-se, si mostra per quel che è: il conglomerato dei pregiudizi d’una certa classe in una certa epoca. La pura e semplice crisi del capitalismo lo sconcerta; dinanzi alle catastrofi che sono le rivoluzioni, le contro-rivoluzioni e le guerre, il buon senso non è che un imbecille tondo tondo. Per penetrare i turbamenti «catastrofici» del corso «normale» delle cose, occorrono più alte qualità intellettuali, la cui espressione filosofica non è stata data, sin qui, che dal materialismo dialettico.
Max Eastman, che si sforza con successo di fornire al «buon senso» la più sedicente forma letteraria, si è fatto una professione della lotta contro la dialettica materialista. I truismi conservatori del buon senso uniti al buon stile di Eastman costituirebbero, a quel che pare, la «scienza della rivoluzione». Venendo in soccorso degli snob reazionari del Common Sense, Max Eastman sdottoreggia, con inimitabile sicurezza, che se Trotsky invece di ispirarsi alla dottrina marxista, si fosse ispirato al buon senso … non avrebbe perduto il potere. La dialettica interiore che si è manifestata sin qui nelle fasi successive di ogni rivoluzione non esiste affatto per Eastman. Egli ritiene che la reazione succeda alla rivoluzione perché il buon senso non viene rispettato abbastanza. Eastman non comprende che Stalin s’è appunto trovato ad essere, nella storia, la «vittima» del buon senso, giacché il potere di cui egli dispone viene utilizzato per fini ostili al comunismo. Al contrario, la dottrina marxista ci ha permesso di romperla con la burocrazia termidoriana e di continuare a servire il socialismo internazionale.
Qualsiasi scienza – e ciò vale anche per la «scienza della rivoluzione» * – è soggetta alla verifica sperimentale. Eastman, che sa come si conserva il potere rivoluzionario allorché la contro-rivoluzione si afferma nel mondo intero, deve sapere altrettanto bene come si può conquistare il potere. Sarebbe au-spicabile ch’egli consentisse alfine a divulgare i suoi segreti. La soluzione migliore sarebbe ch’egli lo fa-cesse fornendoci il programma di un partito rivoluzionario sotto il titolo «E’ possibile conquistare e con-servare il potere?». Temiamo tuttavia che il buon senso, per l’appunto, vieti ad Eastman di lanciarsi in una impresa tanto rischiosa. E stavolta, il buon senso avrà ragione.
La dottrina marxista, che Eastman, ahimè, non ha mai compreso, ci ha permesso di prevedere il Termidoro sovietico, ineluttabile in certe condizioni determinate dalla storia, e la sua lunga sequela di crimini. Il marxismo aveva annunciato con grande anticipo l’inevitabile crollo della democrazia borghe-se e della sua morale. In rivincita, i dottrinari del «buon senso» sono stati sorpresi dal fascismo e dallo stalinismo. Il buon senso procede per mezzo di grandezze invariabili in un mondo in cui di invariabile non c’è che la variabilità. La dialettica, al contrario, considera i fenomeni, le istituzioni, le norme nella loro formazione, nel loro sviluppo e nel loro declino. L’atteggiamento dialettico nei confronti della mo-rale, prodotto funzionale e transitorio della lotta di classe, sembra «amorale» agli occhi del buon senso. E tuttavia, non vi è nulla di più duro, di più meschino, di più presuntuoso e cinico che la morale del buon senso!

* Max Eastman è autore di un opera intitolata La scienza della Rivoluzione, [N.d.T.]

I moralisti e la GPU

Il pretesto alla crociata contro l’«amoralismo» bolscevico è stato fornito dai processi di Mosca. Ciononostante la crociata non ha avuto inizio sul momento, giacché i moralisti erano per la maggior parte amici del Cremlino. In quanto tali, si sforzarono durante un lungo periodo di celare la loro sorpre-sa e anzi di fingere che non fosse accaduto nulla.
I processi di Mosca non dipendono tuttavia dal caso. Il servilismo, l’ipocrisia, il culto ufficiale della menzogna, la compravendita delle coscienze e tutte le altre forme di corruzione fiorirono copiosamente a Mosca dopo il 1924-1925. Le future imposture giudiziarie venivano preparate alla luce del giorno. Gli avversari non mancarono. Gli «amici» non volevano avvedersi di nulla. Il che non sorprende: la maggior parte di quei signori era stata fondamentalmente ostile alla rivoluzione d’Ottobre e non si era avvicinata all’Unione Sovietica che a poco a poco, seguendone il processo di degenerazione termidoriana; la piccola borghesia occidentale riconobbe allora nella piccola borghesia orientale un’anima sorella.
Quegli uomini credettero veramente alle accuse di Mosca? Non vi credettero che i più inintelli-genti. Gli altri non si diedero la pena di una verifica. Conveniva turbare l’amicizia lusinghiera, conforte-vole e sovente proficua ch’essi avevano con le ambasciate sovietiche? D’altro canto – essi non lo dimen-ticano – l’imprudente verità poteva nuocere al prestigio dell’Unione Sovietica. Quegli uomini tennero celato il delitto basandosi su ragioni utilitarie e applicando così manifestamente la regola che il fine giu-stifica i mezzi.
Mister Pritt, consigliere di S.M. britannica, che aveva avuto l’occasione di gettare un’opportuna occhiata a Mosca, sotto la tunica della Temi staliniana, e aveva trovato che la sua biancheria intima era in ordine, risolse di sfidare la vergogna. Romain Rolland, di cui i contabili delle Edizioni sovietiche ap-prezzano forte l’autorità morale, s’affrettò a pubblicare uno dei suoi manifesti, ove il lirismo malinconico si mescola a un cinismo senile. La Lega francese dei Diritti dell’Uomo che condannava nel 1917 l’«amoralismo» di Lenin e di Trotsky – allorché rompemmo l’alleanza militare con la Francia – si premu-rò di coprire nel 1936 i delitti di Stalin, nell’interesse del patto franco-sovietico. Si vede che il fine patri-ottico giustifica tutti i mezzi. Negli Stati Uniti, «The Nation» e «The New Republic» chiusero gli occhi dinanzi alle imprese di Jagoda, l’«amicizia» con l’URSS essendo divenuta il pegno della loro stessa auto-revolezza, Un anno fa appena, quei signori non dicevano ancora che lo stalinismo e il trotskismo sono identici. Essi erano apertamente con Stalin, per il suo spirito realistico, per la sua giustizia, per il suo Ja-goda. Essi mantennero il loro atteggiamento il più a lungo possibile.
Fino all’uccisione di Tukacevskij, di Jakir e degli altri generali rossi, la grande borghesia dei paesi democratici osservò non senza soddisfazione, pur affettando una certa ripugnanza, lo sterminio dei rivoluzionari nell’URSS. A questo riguardo «The Nation» e «The New Republic», per non parlare del Du-ranty, Louis Fischer, e altri pennivendoli prostituiti venivano pienamente incontro agli interessi dell’imperialismo «democratico». L’esecuzione dei generali mise in agitazione la borghesia, obbligandola a comprendere che la decomposizione pronunciata del regime poteva facilitare il compito a Hitler, a Mussolini, al Mikado. Il «New York Times» cominciò a rettificare, con prudenza ma tenacemente, il tiro del suo Duranty. «Le Temps» lasciò filtrare nelle sue colonne un debole lucore sulla situazione reale dell’URSS. Quanto ai moralisti e ai sicofanti piccolo-borghesi, essi non furono mai altro che gli ausiliari delle classi capitaliste, Infine, allorché la Commissione John Dewey* ebbe formulato la sua sentenza, di-venne chiaro agli occhi di chiunque che difendere ancora apertamente la GPU significava rischiare una morte politica e morale. A partire da quel momento, gli «amici» decisero d’invocare le verità eterne del-la morale, in breve di ripiegare sulle loro trincee di seconda linea. Gli staliniani e i semi-staliniani atterri-ti non occupano l’ultimo posto frammezzo i moralisti. Mister H. Lyons visse in buona armonia per molti anni con la banda termidoriana e si considerò lui stesso come un quasi-bolscevico. Essendosi messo in urto col Cremlino – e c’importa mediocremente sapere perché – andò a sistemarsi in fretta e furia sopra le nuvole dell’idealismo. Liston Honk, ancora poco fa, godeva di un tal credito presso il Comintern che fu incaricato di dirigere la propaganda repubblicana in lingua inglese per la Spagna. Il che non gli im-pedì, una volta date le dimissioni, di abiurare persino i primi rudimenti del marxismo. Walter Krivtsky, essendosi rifiutato di tornare nell’URSS e avendo rotto con la GPU, passò immediatamente alla demo-crazia borghese. La metamorfosi del settuagenario Charles Rappoport sembra analoga. Gettato via il lo-ro stalinismo, le persone di questa fatta – alquanto numerose – non possono fare a meno di cercare negli argomenti della morale astratta una compensazione per il loro disinganno o il loro avvilimento ideologico. Chiedete loro perché sono passati dal Comintern e dalla GPU alla borghesia. Hanno già pronta la risposta: «Il trotskismo non vale più dello stalinismo».

* La Commissione John Dewey, composta da eminenti personaggi della società intellettuale degli Stati Uniti, studiò a lungo i dati dei processi di Mosca, ascoltò Trotsky, consultò i suoi archivi, e concluse formalmente a favore dell’innocenza dei due principali accusati, Trotsky e suo figlio Lev Sedov. [nota di Victor Serge.]
Disposizione delle pedine del gioco politico

«Il trotskismo è romanticismo rivoluzionario, lo stalinismo politica realista». Non v’è più traccia di questa piatta antinomia che ancora ieri serviva al filisteo medio per giustificare la sua amicizia verso il Termidoro e contro la rivoluzione. Lo stalinismo e il trotskismo non vengono più contrapposti, ma identificati. Nella forma e non nell’essenza. Battendo in ritirata fino al meridiano dell’«imperativo categorico», i democratici continuano in realtà a difendere la GPU, ma in modo più celato, più ingannevole. Chi calunnia le vittime collabora con il boia. In questo come in altri casi, la morale è asservita alla politica.
Il filisteo democratico e il burocrate staliniano, sono se non dei gemelli, almeno dei fratelli in i-spirito. In politica, essi stanno, comunque, dalla stessa parte. Il sistema governativo della Francia è al giorno d’oggi fondato sulla collaborazione degli staliniani, dei socialisti e dei liberali; lo stesso in Spa-gna, dove si sono aggiunti gli anarchici. Se l’Independent Labour Party ha una così derelitta apparenza è perché, durante lunghi anni, non si è sottratto agli amplessi del Comintern. Il partito socialista francese ha espulso i trotskisti nel momento stesso in cui si preparava all’unità organica con gli staliniani. E se questa unità non si è realizzata, non è a causa di divergenze sui principi – cosa ne è rimasto? – ma perché gli arrivisti socialisti hanno avuto paura per i loro impieghi. Di ritorno dalla Spagna, Norman Thomas ha dichiarato che i trotskisti aiutavano «oggettivamente» Franco; e grazie a questa assurdità, Norman Thomas stesso ha procurato un aiuto oggettivo ai carnefici della GPU. Questo apostolo della causa espelleva dal suo partito i trotskisti nel preciso momento in cui la GPU fucilava i loro compagni nell’URSS e in Spagna. In molti paesi democratici gli staliniani penetravano, nonostante il loro «amoralismo», nei servizi dello Stato. Nei sindacati, convivono in buona armonia coi burocrati di qualsiasi altra tendenza. E’ vero che gli staliniani trattano con leggerezza il codice penale, ciò che spaventa un po’, in tempi di calma, i loro amici «democratici»; per contro, nelle circostanze eccezionali, essi divengono più facilmente i capi della piccola borghesia ch’esso inducono a lottare contro il proletariato; come si è visto in Spagna.
La II Internazionale e la FSI di Amsterdam, naturalmente, non si sono assunte la responsabilità dei falsi, preferendo lasciarla al Comintern. Hanno taciuto. Nei colloqui privati, i loro rappresentanti spie-gavano che dal punto di vista morale essi condannavano Stalin, ma che dal punto di vista politico, l’approvavano. Non fu che quando il Fronte Popolare francese ebbe rivelato irreparabili crepe, quando i socialisti dovettero pensare al domani, che Léon Blum ripescò, in fondo al sua calamaio, le indispensabili formule dell’indignazione morale.
Otto Bauer non biasimò con moderazione la giustizia di Visinskij che per poter sostenere con maggiore «imparzialità» la politica di Stalin. Il destino del socialismo, secondo una recente dichiarazio-ne di Bauer, sarebbe legato a quello dell’URSS. «E il destino dell’URSS è quello dello stalinismo fin tanto che (!) lo sviluppo interno dell’URSS stessa non avrà superato la fase staliniana … ». Tutto Bauer, tutto l’austro-marxismo, tutta la falsità, tutto il marciume della socialdemocrazia possono essere rintracciati in questa magnifica frase! «Fin tanto che» la burocrazia staliniana è abbastanza forte da poter sterminare i più avanzati rappresentanti dello «sviluppo interno» dell’URSS, Bauer resta con Stalin. Quando le forze rivoluzionarie rovesceranno Stalin, contro la volontà di Bauer, Bauer riconoscerà generosamente – con una decina d’anni di ritardo, tuttalpiù – tale «sviluppo interno»!
Il Bureau di Londra dei socialisti di centro, riunendo felicemente in sé gli aspetti d’un asilo, di una scuola per adolescenti ritardati e di un ricovero per invalidi, procede al rimorchio delle vecchie Interna-zionali. Il suo segretario, Fenner Brockway, cominciò col dichiarare che l’inchiesta sui processi di Mosca avrebbe potuto «nuocere» all’URSS e propose invece di aprire un’inchiesta … sull’attività di Trotsky, co-stituendo una commissione «imparziale» nella quale fossero ammessi cinque avversari irreconciliabili di Trotsky … Brandler e Lovestone espressero pubblicamente la loro solidarietà con Jagoda; non indietreg-giarono che davanti a Ejov; Jacob Walcher rifiutò, con un pretesto chiaramente falso, di fornire alla commissione John Dewey una testimonianza che non poteva essere che sfavorevole a Stalin. La putrida morale di questi uomini non è che il prodotto della loro putrida politica.
Ma la parte più trista tocca senza dubbio agli anarchici. Se lo stalinismo e il trotskismo sono identici, come essi affermano in ogni riga che scrivono, perché mai gli anarchici spagnoli aiutano gli staliniani a sgozzare i trotskisti e insieme quegli anarchici che sono rimasti rivoluzionari? I più franchi fra i teorici libertari rispondono che tale è il prezzo dei rifornimenti d’armi sovietiche. In breve, il fine giustifica i mezzi. Ma qual è il loro fine? L’anarchia? Il socialismo? No. La salvezza della democrazia borghese che ha aperto la strada al fascismo. A un fine basso corrispondono sporchi mezzi.
Tale è la disposizione effettiva delle pedine del gioco politico sullo scacchiere del mondo.

Lo stalinismo è un prodotto della vecchia società

La Russia ha compiuto il più grandioso balzo in avanti che la storia conosca: sono state le forze più progressiste del paese a fornire tale sforzo. Con l’odierna reazione, la cui ampiezza è proporzionata a quella della rivoluzione, l’inerzia prende la sua rivincita. Questa reazione s’incarna nello stalinismo. La barbarie della vecchia storia russa, risorta su nuove basi sociali, appare ancor più demoralizzante, in quanto fa ricorso ad un’ipocrisia quale la storia non ne conobbe d’eguali sin qui.
I liberali e i socialdemocratici dell’Occidente, in cui la rivoluzione d’Ottobre ispirò dubbi sulle proprie decrepite idee, si sono sentiti ritornare le forze. La cancrena morale della burocrazia sovietica sembrò loro rivalutare il liberalismo. Li si vede spacciare vecchi aforismi frusti di questo genere: «Ogni dittatura reca in se stessa i germi della propria dissoluzione»: «solo la democrazia assicura lo sviluppo della personalità», eccetera. L’opposizione della democrazia alla dittatura, implicando nel caso specifico la condanna del socialismo in nome del regime borghese, sorprende, qualora la si consideri sotto il profilo della teoria, per l’ignoranza e la cattiva fede di cui è il risultato. L’infezione dello stalinismo, real-tà storica, viene posta a raffronto con la democrazia, astrazione sopra-storica. Tuttavia, la democrazia ha avuto una storia anch’essa, nel cui ambito non son mancati gli eventi abominevoli. Per definire la burocrazia sovietica, noi mutuiamo dalla storia della democrazia borghese i termini di «Termidoro» e di «bonapartismo», giacché – i dottrinari in ritardo ne prendano nota – la democrazia non si è affermata tramite metodi democratici, al contrario. Solo i pedanti possono accontentarsi dei ragionamenti sul bo-napartismo «figlio legittimo» del giacobinismo, castigo storico per gli attentati alla democrazia, ecc. Senza la distruzione della feudalità coi metodi giacobini, la democrazia borghese sarebbe stata incon-cepibile. E’ altrettanto falso il contrapporre alle tappe storiche reali – giacobinismo, termidoro, bona-partismo – l’astrazione «democrazia» quanto il paragonare i dolori del parto alla calma del neonato.
Neanche lo stalinismo è, per parte sua, una «dittatura» astratta; è una vasta reazione burocratica alla dittatura del proletariato in un paese retrogrado e isolato. La rivoluzione d’Ottobre ha abolito i pri-vilegi, dichiarando guerra all’ineguaglianza sociale, sostituito alla burocrazia il governo dei lavoratori per i lavoratori, soppresso la diplomazia segreta; si è sforzata di dare ai rapporti sociali una trasparenza completa. Lo stalinismo ha restaurato le forme più offensive del privilegio, ha impresso all’ineguaglianza un carattere provocante; ha soffocato, per mezzo del dispotismo poliziesco, l’attività spontanea delle masse; ha fatto dell’amministrazione un monopolio dell’oligarchia del Cremlino; ha reso la vita al fetici-smo del potere sotto tali e tanti aspetti che la monarchia assoluta neanche se li sarebbe immaginati.
La reazione sociale, quale che sia, è tenuta a mascherare i suoi fini autentici. Più il passaggio dalla rivoluzione alla reazione è brutale, più la reazione dipende dalle tradizioni della rivoluzione; in altri termini, più essa teme le masse e più è costretta a ricorrere alle menzogne e all’inganno nella sua lotta contro i fautori della rivoluzione. Le imposture staliniane non sono quindi il frutto dell’«amoralismo» bolscevico; come tutti gli avvenimenti rilevanti della storia, esse sono il prodotto della lotta sociale con-creta, la più perfida e crudele che ci sia: quella di una nuova aristocrazia contro le masse che l’hanno condotta al potere.
In verità, è necessaria una totale indigenza intellettuale e morale per identificare la morale rea-zionaria e poliziesca dello stalinismo con la morale rivoluzionaria dei bolscevichi. Il partito di Lenin ha cessato di esistere da gran tempo, ormai; le difficoltà interne e l’imperialismo mondiale l’hanno fatto a pezzi. Gli è successa la burocrazia staliniana. La quale è un apparato di trasmissione dell’imperialismo. Nel campo della politica mondiale, la burocrazia ha sostituito la collaborazione fra le classi alla lotta di classe, il social-patriottismo all’internazionalismo. Al fine di adattare il partito governante alle necessità della reazione, la burocrazia ne ha «rinnovato» il personale con lo sterminio dei rivoluzionari e il reclu-tamento degli arrivisti.
Qualsiasi reazione risuscita, alimenta, rinforza quegli elementi del passato storico che la rivolu-zione ha colpito senza riuscire ad annientarli. I metodi staliniani portano a compimento, al più alto livel-lo di tensione, e giungendo quasi all’assurdo, tutti quei procedimenti di menzogna, di crudeltà e l’abbruttimento che costituiscono il meccanismo del potere in qualsiasi civiltà divisa in classi, ivi com-presa la democrazia. Lo stalinismo è un conglomerato delle mostruosità dello Stato quale la storia lo ha fatto; ne è inoltre la funesta caricatura e la ripugnante smorfia. Quando i rappresentanti della vecchia società oppongono sentenziosamente alla cancrena dello stalinismo un’astrazione democratica steriliz-zata, noi abbiamo il diritto di raccomandar loro, come all’intera società del passato, di ammirare le pro-prie fattezze nello specchio deformante del vecchio Termidoro sovietico. E’ vero che, per l’evidenza dei suoi delitti, la GPU supera di gran lunga ogni altro regime. Ciò deriva dall’ampiezza grandiosa degli av-venimenti che hanno sconvolto la Russia nella demoralizzazione dell’era imperialista.

Morale e rivoluzione

Non mancano, fra i liberali e i radicali, coloro che, avendo assimilato i metodi materialistici dell’interpretazione degli avvenimenti, si considerano dei marxisti, il che non gli impedisce di rimanere dei giornalisti, dei professori o degli uomini politici borghesi. E’ sottinteso che non si può concepire un bolscevico senza metodo materialistico, in morale come altrove. Ma questo metodo non gli serve sol-tanto per interpretare gli avvenimenti, esso gli serve altresì a formare il partito rivoluzionario del prole-tariato, compito che non può essere eseguito se non grazie ad una completa indipendenza riguardo la borghesia e la sua morale. Ora, l’opinione pubblica borghese domina in realtà e pienamente il movi-mento operaio ufficiale, da William Green negli Stati Uniti a Garçia Oliver in Spagna passando per Léon Blum e Maurice Thorez in Francia. Il carattere reazionario del presente periodo trova la sua più profonda espressione in questo dato di fatto.
Il marxista rivoluzionario non saprebbe accingersi alla sua storica incombenza senza prima aver rotto moralmente con l’opinione pubblica della borghesia e dei suoi agenti in seno al proletariato. Co-desta rottura esige un coraggio morale d’un altro calibro che non quello delle persone che vanno gri-dando nelle riunioni pubbliche: «Abbasso Hitler, abbasso Franco!». Ed è appunto questa rottura decisi-va, profondamente meditata, irrevocabile, dei bolscevichi con la morale conservatrice della grande e anche della piccola borghesia, che provoca un terrore mortale nei parolai della democrazia, nei profeti da salotto, negli eroi di second’ordine. Di qui, le loro lamentazioni sopra l’«amoralismo» dei bolscevichi.
La loro maniera di identificare la morale borghese con la morale «in genere» si verifica indub-biamente in modo più vistoso all’estrema sinistra della piccola borghesia, e più precisamente nei partiti centristi del Bureau Socialista Internazionale, soprannominato di Londra. Questa organizzazione «accetta» il programma della rivoluzione proletaria, sì che le nostre differenze d’opinione sembrerebbero a prima vista secondarie. In verità, la sua accettazione del programma rivoluzionario è priva di valore in quanto non la impegna a fare alcunché. I centristi «accettano» la rivoluzione proletaria così come i kantiani l’imperativo categorico, ossia quasi fosse un principio sacro inapplicabile nell’esistenza quotidiana. Nella pratica politica, essi s’alleano ai peggiori nemici della rivoluzione, riformisti e staliniani, contro di noi. Il loro pensiero è compenetrato di doppiezza e di ipocrisia. Se essi non si spingono, in linea di massima, fino a sporcarsi di delitti esecrandi, lo si deve al fatto che son confinati sullo sfondo della scena politica; essi sono, in qualche modo, i borsaioli della storia, e questo è il motivo per cui si credono chiamati a fornire il movimento operaio di una nuova morale.
All’estrema sinistra di questa confraternita «progressista» si trova un piccolo gruppo, politica-mente affatto insignificante, di emigrati tedeschi, che pubblica la rivista «Neuer Weg»; curviamoci un po’ più giù e prestiamo orecchio ai discorsi di questi detrattori «rivoluzionari» dell’amoralismo bolscevi-co. La «Neuer Weg», adottando il tono di un elogio a doppio senso, scrive che i bolscevichi si distinguo-no vantaggiosamente dagli altri partiti in questo, che non soffrono d’ipocrisie: essi proclamano a voce alta ciò che gli altri fanno in silenzio e, per esempio, applicano così il principio che «il fine giustifica i mezzi». Stando all’opinione della «Neuer Weg», questa regola «borghese» è incompatibile con un sano «movimento socialista». «La menzogna e quant’altro vi è di peggio sono mezzi consentiti nella lotta, come li riputava ancora Lenin». «Ancora» significa qui che Lenin non ebbe il tempo di ripulire questo suo errore poiché morì prima che venisse scoperta «la nuova via». («Neuer Weg»).
Nell’espressione «la menzogna e quant’altro vi è di peggio», il secondo troncone della frase si-gnifica evidentemente: la violenza, l’assassinio, eccetera, giacché, tutte le altre cose equivalendosi, la violenza è peggio della menzogna e l’assassinio è la forma estrema della violenza. In tal modo, arriviamo alla conclusione che la menzogna, la violenza e l’assassinio sono incompatibili con un «sano movimento socialista». Ma che fare della rivoluzione? La guerra civile è la più crudele delle guerre. Essa è inconce-pibile senza violenze esercitate su terze persone e, tenendo conto della tecnica moderna, senza uccisio-ne di vecchi e di bambini. Dobbiamo ricordare la Spagna? La sola risposta che potrebbero darci gli «a-mici» della Spagna repubblicana sarebbe che la guerra civile è preferibile alla schiavitù fascista. Ma tale risposta, in sé giustissima, significa soltanto che il fine (democrazia o socialismo) giustifica, in determi-nate circostanze «dei mezzi» quali la violenza e il massacro. Non c’è bisogno di parlare qui della menzo-gna! Una guerra senza menzogne è altrettanto inconcepibile d’un meccanismo non lubrificato. Al solo fine di proteggere le Cortes contro le bombe fasciste, il governo di Barcellona ingannò più volte scien-temente i giornalisti e la popolazione. Poteva fare diversamente? Chi desidera il fine (vittoria su Franco) deve desiderare i mezzi (la guerra civile col suo corteggio di orrori e di crimini).
E tuttavia la menzogna e la violenza non sono forse da condannare in «se stesse»? Sicuro, da con-dannare insieme alla società, divisa in classi, che le genera. La società priva di antagonismi sociali sarà indiscutibilmente esente dalla menzogna e dalla violenza. Ma non si può edificare un ponte che adduca a essa senza dover ricorrere ai metodi della violenza. Anche la rivoluzione è il prodotto di una società divisa in classi, di cui porta, per forza di cose, il marchio. Dal punto di vista delle «verità eterne» la rivo-luzione è naturalmente «immorale». Il che vale appena a renderci edotti che la morale idealista è con-tro-rivoluzionaria, ossia che è al servizio degli sfruttatori. «Ma la guerra civile» obietterà forse il filosofo, colto alla sprovvista «è una penosa eccezione. In tempo di pace, un sano movimento socialista deve ri-nunciare alla menzogna e alla violenza». Non si tratta che di un ridicolo scantonamento. Non esistono frontiere invalicabili fra la pacifica lotta di classe e la rivoluzione. Ogni sciopero contiene in germe tutti gli elementi della guerra civile. I due partiti in campo si sforzano vicendevolmente di esprimere un’idea esagerata del livello di decisione raggiunto e delle proprie risorse. Grazie alla loro stampa, ai loro agenti e alle loro spie, i capitalisti cercano d’intimidire e di scoraggiare gli scioperanti. Allorché la persuasione si rivela inoperante, i picchetti di sciopero sono, per parte loro, costretti a impiegare la forza. Risulta così chiaro che «la menzogna e quant’altro vi è di peggio» sono inseparabili dalla lotta di classe già quando questa è nella sua forma embrionale. Resta da aggiungere che le nozioni di verità e di menzogna sono nate dalle contraddizioni sociali.

La Rivoluzione e gli ostaggi

Stalin fa arrestare e fucilare i figli dei suoi avversari, fucilati a loro volta in base ad accuse false. Le famiglie gli servono da ostaggi per costringere quei diplomatici sovietici capaci di esprimere un dubbio sulla probità di Jacoda o di Ejov, a rimpatriare. I moralisti della «Neuer Weg», a questo proposito, cre-dono sia dovere loro rammentare che Trotsky fece uso «anche lui» di una legge sugli ostaggi, nel 1919. Ma è meglio citare testualmente: «L’arresto di famiglie innocenti da parte di Stalin è di una barbarie ri-voltante. Resta un’azione barbara anche quando è Trotsky a ordinarla (1919)». Ecco la morale idealista dispiegata in tutta la sua bellezza! I suoi criteri sono altrettanto menzogneri delle norme della democra-zia borghese: in ambedue i casi, si suppone l’uguaglianza là dove non c’è ombra di eguaglianza.
Non insistiamo qui sul fatto che il decreto del 1919 non portò assai probabilmente all’uccisione di nessuno fra i parenti degli ufficiali il cui tradimento ci costava innumerevoli vite e minacciava di spe-gnere la rivoluzione. In fondo, non è di ciò che si tratta. Se la rivoluzione avesse palesato fin da principio una minore inclinazione a un’inutile generosità, migliaia di vite sarebbero state risparmiare. Come che sia, io mi assumo per intero la responsabilità del decreto del 1919. Fu una misura necessaria nella lotta contro gli oppressori. Quel decreto, come tutta la guerra civile, che potrebbe essere parimenti chiama-ta, e quanto a ragione, una «rivoltante barbarie», non ha altra giustificazione storica che non sia l’oggetto storico della lotta.
Lasciamo a un Emil Ludwuig e ai suoi la cura di fornirci tanti bei ritratti di Abraham Lincoln ornato di alucce rosee. L’importanza di Lincoln proviene dal fatto che, per attingere la grande meta storica fissata dallo sviluppo del giovane popolo americano, non indietreggiò dinanzi all’applicazione delle misure più rigorose, quando queste furono necessarie. Il problema non sta nel sapere quale fra i belligeranti subisce o infligge le perdite più gravi. La storia usa metri differenti per le crudeltà dei sudisti e dei nordisti nella guerra di secessione degli Stati Uniti. Che dei miserabili eunuchi non vengano a sostenere che lo schiavista che, con l’astuzia e la violenza, incatena uno schiavo è, di fronte alla morale, l’eguale dello schiavo che, con l’astuzia e la violenza, spezza le sue catene!
Quando la Comune di Parigi venne annegata nel sangue e la canaglia reazionaria del mondo si mise a strascicare la sua bandiera nel fango, vi furono numerosi filistei democratici che bollarono, di pari passo con la reazione, i Comunardi che avevano giustiziato 64 ostaggi e fra essi l’arcivescovo di Parigi. Marx non esitò un istante a prendere le difese di quella sanguinosa azione della Comune. In una circolare del Consiglio Generale dell’Internazionale, Marx ricorda – e parrebbe quasi di percepire un sobbollio di lave sotto quelle righe – che la borghesia usò il sistema degli ostaggi nella lotta contro i popoli coloniali e nella lotta contro il suo stesso popolo. Parlando poi delle esecuzioni metodiche di Comunardi caduti prigionieri, egli scrive: «Non restava altro alla Comune, per difendere la vita dei suoi soldati fatti prigionieri, che ricorrere alla cattura di ostaggi, abituale presso i Prussiani. La vita degli ostaggi fu perduta e riperduta per il fatto che quelli di Versailles continuavano a fucilare i loro prigionieri. Come sarebbe stato possibile risparmiare gli ostaggi, dopo l’orribile carneficina con cui i pretoriani di Mac Mahon suggellarono la loro entrata in Parigi? L’ultimo contrappeso alla bestialità del governo borghese – la cattura di ostaggi – sarebbe stato volto in ridere?» Tale fu il linguaggio di Marx sull’esecuzione degli ostaggi, benché ci fossero, alle sue spalle, nel Consiglio Generale dell’Internazionale, un buon numero di Fenner Brockway e di Norman Thomas nonché vari Otto Bauer. L’indignazione del proletariato mondiale, davanti alle atrocità commesse dai versagliesi, era ancora così grande che i brogliacci reazionari preferirono tacere, in attesa di tempi migliori per loro: quei tempi, ahimè, non tardarono a venire. I moralisti piccolo- borghesi alleati ai funzionari delle Trade Unions non presero a bersaglio la Prima Internazionale se non quando la reazione ebbe decisamente trionfato.
Quando la rivoluzione d’Ottobre resisteva alle forze riunite dell’imperialismo su un fronte di 8000 km., gli operai di tutti i paesi seguivano quella lotta con una simpatia così ardente che sarebbe stato ri-schioso denunciare ai loro occhi la cattura degli ostaggi come una «rivoltante barbarie». E’ occorsa la degenerazione totale dello Stato sovietico e il trionfo della reazione in diversi paesi perché i moralisti tornassero fuori dai loro buchi ... e andassero in aiuto di Stalin. Giacché, se le misure repressive adottate per difendere i privilegi della nuova aristocrazia hanno lo stesso valore morale delle misure rivoluziona-rie prese nel corso della lotta liberatrice, Stalin viene a essere pienamente giustificato, a meno che … a meno che la rivoluzione proletaria non sia condannata in blocco.
I signori moralisti, pur continuando a cercare esempi di immoralità nella guerra civile russa, sono costretti a chiudere gli occhi sul fatto che la guerra civile in Spagna ha ristabilito, a sua volta, la legge degli ostaggi, almeno nel periodo in cui vi fu un’autentica rivoluzione delle masse. Solo i detrattori non si sono ancora permessi di condannare la «rivoltante barbarie» degli operai spagnoli, è soltanto perché il suolo della penisola iberica scotta troppo per i loro piedi. Gli è molto più agevole tornare indietro al 1919. Si è già nella storia. I vecchi hanno avuto il tempo di dimenticare, i giovani non hanno avuto ancora quello di apprendere. Per la stessa ragione, i farisei di ogni tendenza tornano con tasta ostinazione su Kronstadt e Makhno: le secrezioni morali possono qui concedersi libero corso!

La morale dei Cafri

La storia imbocca sentieri crudeli, si deve convenirne coi moralisti. Ma quale conclusione trarre da ciò sul piano dell’attività pratica? Lev Trotsky raccomandava agli uomini d’essere più semplici e mi-gliori. In mahatma Gandhi gli consigliò di bere latte di capra. Ahimè! I moralisti della «Neuer Weg» non sono poi troppo lontani da tali ricette. «Dobbiamo» essi predicano «liberarci di questa morale da Cafri per cui il male sta in quello che fa il nemico …». Ammirevole consiglio. «Dobbiamo liberarci ... ». Tolstoj raccomandava altresì di liberarsi dal peccato della carne. La statistica non ci indica certo che la sua pro-paganda abbia avuto successo. I nostri omuncoli centristi sono riusciti a elevarsi fino alle cime della mo-rale superiore alle classi, restando in una società divisa in classi. Sono pressappoco duemila anni che qualcuno ha detto: «Amate i vostri nemici …». Nondimeno, lo stesso Santo Padre romano non si è liberato dall’odio verso i suoi nemici. Il Diavolo, nemico del genere umano, è assai possente, in verità.
L’applicare criteri differenti alle azioni degli sfruttatori e a quelle degli sfruttati equivarrebbe, se-condo il parere di quei poveri omuncoli, a porsi al livello della «morale dei Cafri». Chiediamoci innanzi-tutto se spetta a dei «socialisti» professare un tale disprezzo dei Cafri. La morale dei Cafri è davvero tan-to detestabile? Ecco che cosa ne dice l’Enciclopedia Britannica:
«Nei loro rapporti sociali e politici, essi danno prova di intelligenza e di un notevole tatto; sono estremamente impavidi, bellicosi e ospitali: rimasero onesti e degni di fede fin tanto che la frequenta-zione coi bianchi non li rese sospettosi, vendicativi e predaci, e fin tanto che non ebbero inoltre assimi-lato la maggior parte dei vizi degli Europei». Non si può fare a meno di concludere che i missionari bianchi, predicatori della morale eterna, hanno contribuito alla corruzione dei Cafri.
Se si raccontasse a un lavoratore cafro che gli operai, essendosi sollevati in qualche punto del pianeta, hanno sorpreso i loro oppressori, egli se ne rallegrerebbe. Al contrario, sarebbe desolato di ap-prendere che gli oppressori sono riusciti a trarre in inganno gli oppressi. Il Cafro che i missionari non abbiano corrotto fino al midollo delle ossa non consentirà mai ad applicare le medesime norme di morale astratta agli oppressori e agli oppressi. Per contro, egli comprenderà benissimo, se glielo si spiega, che l’oggetto di quelle norme consiste precisamente nell’ostacolare la rivolta degli oppressi contro gli oppressori.
Coincidenza edificante: i missionari della «Neuer Weg» han dovuto, per calunniare i bolscevichi, calunniare nella stessa occasione i Cafri; in ambedue i casi, la calunnia segue il corso della menzogna borghese ufficiale: contro i rivoluzionari e contro le razze di colore. Noi preferiamo decisamente i Cafri a qualsiasi missionario, laico o religioso che sia!
Ma non sopravvalutiamo il grado di consapevolezza attinto dai moralisti della «Neuer Weg» e altre vie cieche; le loro intenzioni non sono poi così cattive. Esse servono da leve nell’ingranaggio della reazione, a prescindere dalla loro volontà. In un’epoca come la nostra, in cui i partiti piccolo-borghesi si aggrappano alla borghesia o alla sua ombra (politica dei Fronti Popolari), paralizzano il proletariato e aprono la strada al fascismo (Spagna, Francia …), i bolscevichi, ossia i marxisti rivoluzionari, divengono particolarmente odiosi all’opinione pubblica borghese. La più forte pressione politica dei nostri giorni viene esercitata da destra a sinistra. In definitiva, l’intero peso della reazione grava sulle spalle di una piccola minoranza rivoluzionaria. Questa minoranza rivoluzionaria si chiama Quarta Internazionale. Ec-co il nemico!
Lo stalinismo occupa un cospicuo numero di posizioni dominanti nell’ingranaggio della reazione. In tal modo, o in altri, tutti i raggruppamenti della società borghese, anarchici compresi, ricorrono al suo aiuto contro la rivoluzione proletaria. Nel frattempo, i democratici piccolo-borghesi tentano di far ricadere – almeno nella proporzione del 50% – l’odiosità dei crimini del loro alleato moscovita sull’irriducibile minoranza rivoluzionaria. Tale è il senso del detto ormai di moda: «Trotskismo e stalini-smo sono identici». Gli avversari dei bolscevichi e dei Cafri aiutano così la reazione a coprire di calunnie il partito della rivoluzione.

L’«amoralismo» di Lenin

I socialisti rivoluzionari russi furono sempre uomini moralissimi; essi non erano, in fondo, che pura etica. Ciò non gli impedì di trarre in inganno i contadini durante la guerra. Uni di loro, Zenzinov, scrive sull’organo parigino di Kerenskij, di quel socialista etico che fu il precursore di Stalin nella fabbricazione di falsi contro i bolscevichi: «Com’è risaputo, Lenin insegnò che, per attingere il fine ch’essi si prefiggono, i bolscevichi possono e talvolta devono “far uso di certi stratagemmi. Del silenzio e del dissimulare la verità …”». («Novaja Rossija», 17 febbraio 1938).
Per sfortuna, questo detrattore tanto morale non è nemmeno capace di fare onestamente una citazione. Lenin ha scritto: «Bisogna sapere consentire a tutto, a tutti i sacrifici e addirittura – in caso di necessità – far uso di vari stratagemmi, di astuzie, di procedimenti illegali, del silenzio, del dissimulare la verità per penetrare nei sindacati, installarvisi e proseguire a qualsiasi costo l’azione comunista». La ne-cessità degli stratagemmi e delle astuzie, secondo la spiegazione di Lenin, proveniva dal fatto che la bu-rocrazia riformista, consegnando gli operai al capitale, perseguitava i rivoluzionari e faceva anzi ricorso contro di loro alla polizia borghese. L’«astuzia» e il «dissimulare» la verità non sono nel caso specifico che i mezzi di una legittima difesa verso la perfidia della burocrazia riformista.
Il partito di Zenzinov combatté, un tempo, nell’illegalità, il vecchio regime e poi il bolscevismo. In entrambi i casi, egli usò dell’astuzia, degli stratagemmi, dei falsi passaporti e altre forme di «dissimula-zione della verità». Tutti questi mezzi erano considerati da lui non soltanto morali ma addirittura eroici, in quanto corrispondevano ai fini della democrazia piccolo-borghese. Ma la loro situazione cambia non appena i rivoluzionari proletari si vedono costretti a ricorrere ai mezzi della illegalità contro quella de-mocrazia. La chiave dell’etica di quei signori è rintracciabile, come balza agli occhi, nel loro spirito di classe.
L’«amoralista» Lenin raccomanda apertamente, alla luce del sole, di usare le astuzie di guerra nei riguardi dei leaders che tradiscono il movimento operaio. Il moralista Zenzinov mutila scientemente tale testo da ambo i lati, allo scopo di ingannare i suoi lettori. Il detrattore tanto morale non è – secondo la consuetudine – che un baro meschino. Lenin non aveva torto a ripetere che è terribilmente difficile in-contrare un avversario in buona fede!
L’operaio che non cela al capitalista la «verità» sulle intenzioni degli scioperanti è un traditore bello e buono che merita solo disprezzo e boicottaggio. Il soldato che comunica la «verità» al nemico viene punito come spia. Lo stesso Kerenskij tentò fraudolentemente di accusare i bolscevichi di avere comunicato la «verità» a Ludendorff. Allora, la «santa verità» non sarebbe fine a se stessa? La dominano criteri imperativi che – lo dimostra l’analisi – scaturiscono dallo spirito di classe.
La lotta mortale non è concepibile senza astuzie di guerra, in altri termini senza menzogne e in-ganni. I proletari tedeschi possono forse fare a meno di ingannare la polizia di Hitler? I bolscevichi so-vietici mancherebbero alla morale ingannando la GPU? L’onesto borghese applaude l’abilità del poli-ziotto che riesce a catturare con l’astuzia un pericoloso gangster. E l’astuzia non dovrebbe esser lecita quando si trattasse di rovesciare i gangster dell’imperialismo?
Norman Thomas parla dello «strano amoralismo comunista che non tiene conto di nulla fuori che del partito e del suo potere». («that strange Communist amorality in wich nothing matters but the party and its power», «Socialist Call», 12 marzo 1938). Ciò facendo, Thomas confonde il Comintern odierno, vale a dire il complotto della burocrazia staliniana contro la classe operaia, col partito bolscevico che incarnava il complotto degli operai progressisti contro la borghesia. Noi abbiamo confutato sufficientemente più sopra questa identificazione del tutto disonesta. Lo stalinismo non fa che camuffarsi per mezzo del culto al partito; in realtà, esso distrugge il partito e lo trascina nel fango. E’ anche vero che il partito è tutto per il bolscevico. Questo atteggiamento del rivoluzionario verso la rivoluzione sorprende e respinge il socialista da salotto che non è a sua volta che un borghese provvisto di un «ideale» socialista. Agli occhi di Norman Thomas e dei suoi simili, il partito non è che lo strumento di combinazioni elettorali e d’altro genere. La vita privata dell’uomo, le sue relazioni, i suoi interessi, la sua morale sono estranei al partito. N. Thomas considera con un’avversione mescolata di stupore il bolscevico per il quale il partito è lo strumento della trasformazione rivoluzionaria della società, morale compresa. Nel rivoluzionario marxista non ci potrebbe essere contraddizione fra la morale personale e gli interessi del partito, poiché il partito abbraccia, entro la sua coscienza, i compiti e i fini più alti dell’umanità. Dopo di che, sarebbe ingenuo credere che Mister Thomas abbia sulla morale delle nozioni più elevate che non quelle dei marxisti. Egli ha soltanto un’idea più bassa di quel che è il partito.
«Tutto ciò che nasce è degno di perire», dice il dialettico Hegel. La fine del partito bolsce-vico – episodio della reazione mondiale – non diminuisce affatto l’importanza di quel partito nella storia del mondo. All’epoca della sua ascesa rivoluzionaria, ossia allorché rappresentava realmente l’avanguardia proletaria, esso fu il partito più onesto della storia. Quando l’ha potuto, esso ha natural-mente tratto in inganno le classi avversarie; quindi, esso ha detto la verità ai lavoratori, tutta la verità, nient’altro che la verità. Unicamente grazie a questo fatto, ha conquistato la loro fiducia come nessun altro partito al mondo.
I tirapiedi delle classi dirigenti tacciano il creatore di tale partito di «immoralismo». Agli occhi degli operai consapevoli, questa accusa gli fa onore. Essa significa che Lenin rifiutava energica-mente di ammettere le norme della morale stabilite dagli schiavisti per gli schiavi, e che gli schiavisti stessi non rispettarono mai; essa significa che Lenin invitava il proletariato a estendere la lotta di classe al dominio della morale. Colui che s’inchina davanti alle regole formulate dal nemico non vincerà mai!
L’«amoralismo» di Lenin, vale a dire il suo rifiuto di ammettere una morale superiore alle classi, non gli impedì di restare per tutta la vita fedele al medesimo ideale; di dedicarsi interamente alla causa degli oppressi; di mostrarsi altamente scrupoloso nella sfera delle idee e intrepido nell’azione; di non avere la minima altezzosità riguardo al «semplice operaio», alla donna indifesa e al bambino. Non vien fatto di pensare che amoralismo in questo caso sia il sinonimo di una morale umana più elevata?

Un episodio edificante

E’ senza dubbio utile dar qui notizia di un episodio che, benché di scarsa importanza in se stesso, illustra assai bene la differenza fra la «loro» morale e la «nostra». In una delle lettere ai miei amici belgi sviluppai l’idea, nel 1935, che un giovane partito rivoluzionario, qualora tentasse di creare dei «sindacati suoi propri» andrebbe incontro al suicidio. Bisogna cercare gli operai là dove essi sono. Ma ciò non significa doversi quotare per il mantenimento di un sindacato opportunista? Certo che sì, risposi io, il diritto di scalzare i riformisti, bisogna ben pagarglielo. Ma i riformisti non consentiranno di lasciarci fare un lavoro di scalzatura. Evidentemente, risposi ancora io, il lavoro di scalzatura esige talune precauzioni cospirative. I riformisti formano la polizia politica della borghesia in seno alla classe operaia. Bisogna saper agire senza il loro permesso e nonostante le loro interdizioni …. Nel corso di una perquisizione effettuata presso il compagno D …, in seguito, se non sbaglio, a una faccenda di fornitura di armi alla Spagna operaia, la polizia belga sequestrò la mia lettera. Pochi giorni dopo, la lettera veniva resa pubblica. La stampa di Vandervelde, de Man, Spaak non risparmiò le sue folgori al mio «machiavellismo» o «gesuitismo». Ma chi erano i miei censori? Presidente della II Internazionale da molti anni, Vandervelde era ormai da lungo tempo diventato l’uomo di fiducia del capitale in Belgio. De Man dopo aver per anni e anni impiegato volumi massicci per nobilitare il socialismo gratificandolo di una morale idealista e riaccostandosi di soppiatto alla religione, mise a profitto la prima occasione buona per turlupinare gli operai e diventare un ordinario ministro della borghesia. Per Spaak, la cosa è ancor più sorprendente. Diciotto mesi or sono, questo signore, appartenente all’opposizione socialista di sinistra, era venuto a chiedermi consiglio sui metodi di lotta da impiegare contro la burocrazia di Vandervelde. Io gli avevo esposto le idee che in seguito si ritrovarono nella mia lettera. Un anno più tardi, egli rinunciava alle spine per la rosa. Tradendo i suoi amici dell’opposizione, egli diventava uno dei ministri più cinici del capitale belga. Nei sindacati e nel loro partito, questi signori soffocano qualsiasi critica, demoralizzano e corrompono i lavoratori più avanzati ed espellono altresì sistematicamente gli indocili. Essi non differiscono dalla GPU che per il fatto di procedere, al momento, senza effusione di sangue; nella loro qualità di buoni patrioti, essi tengon di scorta il sangue operaio per la prossima guerra mondiale. E’ chiaro: bisogna proprio essere un’emanazione dell’inferno, un «Cafro», un bolscevico, per dare agli operai rivoluzionari il consiglio di osservare nella lotta contro quei signori le regole della cospirazione!
Dal punto di vista della legalità belga, la mia lettera non conteneva alcunché di delittuoso. La po-lizia di un paese democratico sarebbe stata tenuta a restituirla al destinatario, con le sue scuse. La stam-pa del partito socialista avrebbe dovuto protestare contro una perquisizione provocata dalla tutela degli interessi del generale Franco. I signori socialisti non provarono il minimo imbarazzo a trar partito dall’indiscreto servizio fattogli dalla polizia; senza il quale non avrebbero avuto la fortunata occasione di manifestare una volta di più la superiorità della loro morale sull’amoralismo dei bolscevichi.
Tutto è simbolico, in questo episodio. I socialisti belgi mi hanno schiacciato sotto la loro indigna-zione nello stesso momento in cui i loro compagni di Norvegia ci tenevano, mia moglie e me, sotto ca-tenaccio, perché non potessimo difenderci contro le accuse della GPU. Il governo norvegese sapeva be-nissimo che le accuse di Mosca erano fabbricate; l’organo ufficiale dei socialdemocratici lo scrisse a ca-ratteri di scatola fin dai primi giorni. Ma Mosca colpì gli armatori e i mercanti di pesce norvegesi nel borsellino, e i signori socialdemocratici si buttarono subito carponi. Il capo del partito, Martin Tranmael, è più che un’autorità in fatto di morale, è un giusto: egli non beve né fuma, è vegetariano e d’inverno fa il bagno nell’acqua diaccia. Ciò non gli impedì, dopo averci fatto arrestare su ordine della GPU, di invitare l’agente norvegese della GPU, Jacob Friese, borghese senza onore né coscienza, a calunniarmi in modo particolare. Ma basta … .
La morale di quei signori consiste in regole convenzionali e in accorgimenti oratori destinati a coprire i loro interessi, i loro appetiti, i loro timori. Per la maggior parte, essi sono pronti a tutte le bas-sezze – al rinnegamento, alla perfidia, al tradimento – per ambizione e per lucro. Nella sfera sacra degli interessi personali, il fine giustifica per loro qualsiasi mezzo. E ‘appunto per ciò che gli occorre un codice morale speciale, pratico e nello stesso tempo elastico, come un buon paio di bretelle. Essi detestano chiunque riveli alle masse i loro segreti professionali. In tempo di pace, il loro odio s’esprime tramite ingiurie, volgari o «filosofiche». Quando i conflitti sociali si acuiscono, come in Spagna, quei moralisti, di conserva con la GPU, sterminano i rivoluzionari. Poi, per giustificarsi, ripetono che «trotskismo e stalinismo sono una sola e medesima cosa».

Interdipendenza dialettica del fine e dei mezzi

Il mezzo non può essere giustificato che dal fine. Ma anche il fine abbisogna di una giustificazio-ne. Dal punto di vista del marxismo, che esprime gli interessi storici del proletariato, il fine è giustificato se porta all’accrescimento del potere dell’uomo sulla natura e all’abolizione del potere dell’uomo sull’uomo.
«Forse per attingere questo fine, tutto è lecito?», ci chiederà sarcasticamente il filisteo, rivelando di non aver compreso nulla. E’ lecito, risponderemo, tutto ciò che porta effettivamente alla liberazione degli uomini. Questo fine non potendo essere raggiunto che attraverso vie rivoluzionarie, la morale e-mancipatrice del proletariato ha necessariamente un carattere rivoluzionario. Insieme ai dogmi della re-ligione, essa si oppone irriducibilmente ai feticci, quali che siano, dell’idealismo, questi gendarmi filoso-fici della classe dominante. Essa deduce le regole di condotta dalle leggi dello sviluppo sociale, vale a dire, innanzitutto dalla lotta di classe, che è la legge delle leggi.
Il moralista insiste ancora: «Forse che nella lotta di classe contro il capitalismo tutti i mezzi sono leciti? La menzogna, il falso, il tradimento, l’assassinio, ecc. ?».
Noi gli rispondiamo: sono ammissibili e obbligatori solo quei mezzi che accrescono la coesione del proletariato. Gli insufflano nell’anima un odio inestinguibile verso l’oppressione, gli insegnano a di-sprezzare la morale ufficiale e i suoi reggicoda democratici, lo compenetrano della consapevolezza della sua missione storica, aumentando il suo coraggio e la sua abnegazione. Di qui si ricava per l’appunto che non tutti i mezzi sono leciti. Quando noi diciamo che il fine giustifica i mezzi, ne risulta per noi che il grande fine rivoluzionario respinge, di tra i suoi mezzi, i procedimenti e i metodi di quegli indegni che spingono una parte della classe operaia contro le altre; o che tentano di fare la felicità delle masse senza il concorso di queste; o che sminuiscono la fiducia delle masse in se stesse e nella loro organizzazione, sostituendovi l’adorazione dei «capi». Sopra ogni altra cosa, la morale rivoluzionaria condanna irriducibilmente il servilismo nei confronti della borghesia e l’altezzosità nei confronti dei lavoratori, ossia uno degli aspetti più radicati della mentalità dei pedanti e dei moralisti piccolo-borghesi.
Questi criteri non dicono, ciò va da sé, quel che è lecito e quel che inammissibile in una data si-tuazione. In questo campo, non possono darsi risposte automatiche, in quanto i problemi della morale rivoluzionaria si confondono coi problemi della strategia e della tattica rivoluzionaria. E’ l’esperienza vi-va del movimento, illuminata dalla teoria, a trovar loro una giusta soluzione.
Il materialismo dialettico non tiene separato il fine dai mezzi. Il fine viene dedotto, in tutta natu-ralezza, dal divenire storico. I mezzi sono organicamente subordinati al fine. Il fine immediato diventa il mezzo del fine ulteriore … . Ferdinand Lassalle fa dire, nel dramma Franz von Sickingen, a uno dei perso-naggi:
Non mostrare solo la meta, mostra altresì il cammino,
giacché la meta ed il cammino sono talmente uniti
che l’uno cambia con l’altro e si muove con lui.
E che un nuovo cammino rivela un’altra meta.
I versi di Lassalle sono alquanto imperfetti. Lassalle stesso, e questo è più imbarazzante ancora, s’allontanò, nella pratica politica, dalla regola che aveva in tal modo espressa: si sa ch’egli scese a nego-ziati segreti con Bismark. Ma l’interdipendenza del fine e dei mezzi è bene espressa in questi quattro versi. Per ottenere una spiga di frumento è necessario seminar prima un chicco di frumento.
Il terrorismo individuale è ammissibile o no, dal punto di vista della «morale pura»? Sotto questa forma astratta, per noi la domanda non si pone nemmeno. I borghesi conservatori svizzeri tributano tuttora elogi ufficiali al terrorista Guglielmo Tell. Le nostre simpatie vanno senza riserve ai terroristi irlandesi, russi, polacchi, indù ribellatisi a un gioco politico e nazionale. Kirov, satrapo brutale, non suscita in noi alcuna compassione. Noi restiamo neutrali riguardo a colui che l’ha ucciso solo perché ignoriamo i suoi moventi. Se apprendessimo che Nikolaev ha colpito consapevolmente nell’intento di vendicare gli operai di cui Kirov calpestava i diritti, le nostre simpatie andrebbero senza riserve al terrorista. Ma ciò che è decisivo ai nostri occhi non è il movente soggettivo, bensì l’utilità oggettiva. Il tale mezzo può condurci alla meta? Per il terrorismo individuale, la teoria e l’esperienza testimoniano del contrario. Noi diciamo al terrorista: non è possibile sostituirsi alle masse; il tuo eroismo troverebbe di che applicarsi utilmente solo in seno a un movimento di masse. Nell’ambito di una guerra civile, l’assassinio di taluni oppressori non appartiene più al terrorismo individuale. Se un rivoluzionario facesse saltare in aria il generale Franco e il suo stato maggiore, è dubbio che quest’atto susciterebbe l’indignazione morale, persino fra gli eunuchi della democrazia. In tempo di guerra civile, un atto di questo genere sarebbe politicamente utile. Così, per quel concerne il problema più grave – quello dell’omicidio – le regole morali sono del tutto inoperanti. Il giudizio morale è condizionato, col giudizio politico, dalle necessità interne della lotta.
L’emancipazione degli operai non può essere che l’opera degli operai stessi. Non v’è dunque de-litto più grande che il trarre in inganno le masse, che il far passare delle sconfitte per vittorie, degli ami-ci per nemici, che l’acquistare capi, il fabbricare leggende, il montare processi mendaci: in una parola, che fare quel che fanno gli staliniani. Questi mezzi non possono servire che a un solo fine: prolungare il dominio di una fazione già condannata dalla storia. Essi non possono servire per l’emancipazione delle masse. Ecco perché la IV Internazionale sostiene contro lo stalinismo una lotta mortale.
Va da sé che le masse non sono senza peccato. Noi non siamo affatto inclini a idealizzarle. Le ab-biamo viste in varie circostanze, in diverse tappe, in mezzo ai più grandi rivolgimenti. Abbiamo osservato le loro debolezze e le loro qualità. Le loro qualità, la decisione, l’abnegazione, l’eroismo, trovavano sempre la loro più alta espressione nei periodo in cui la rivoluzione procedeva d’impeto. In quei momen-ti, i bolscevichi furono alla testa delle masse. In seguito, si aprì un altro capitolo della storia, quando si palesarono le debolezze degli oppressi: eterogeneità, insufficienza culturale, ristrettezza d’orizzonti. Af-faticate, deluse, le masse si accasciarono, persero la fede in se stesse e cedettero il posto a una nuova a-ristocrazia. In quel periodo, i bolscevichi (i «trotskisti») si trovarono isolati dalle masse. In pratica, ab-biamo già attraversato cicli simili: 1897-1905, annate di flusso; 1907-1913, annate di riflusso; 1917-1923, annate contraddistinte da un incremento senza precedenti nella storia; poi, un nuovo periodo di reazione che non è ancora finito. Grazie a questi avvenimenti, i «trotskisti» hanno imparato a conoscere il ritmo della storia, o in altri termini la dialettica della lotta di classe. L’hanno imparato e, sembra a noi, sono riusciti a subordinare a tale ritmo oggettivo i loro disegni soggettivi e i loro programmi. Hanno im-parato a non disperare, poiché le leggi della storia non dipendono dai nostri gusti individuali e dai nostri criteri morali. Hanno imparato a subordinare i loro gusti individuali a tali leggi. Hanno imparato a non temere i nemici più potenti, se la potenza di questi nemici è in contraddizione con le esigenze dello sviluppo storico. Essi sanno rimontare la corrente nella convinzione profonda che l’afflusso storico di nuova potenza li porterà sino all’altra riva. Non tutti: molti annegheranno per via. Ma il partecipare a tale movimento con gli occhi aperti, con una volontà tesa, costituisce la soddisfazione morale per eccellenza che possa essere data a un essere pensante!


Coyoacan, 16 febbraio 1938


P.S. – scrivevo queste pagine senza sapere che, in quegli stessi giorni, mio figlio lottava con la morte. Dedico alla sua memoria questo breve lavoro che, io spero, avrebbe incontrato la sua approvazione, poiché Lev Sedov era un rivoluzionario autentico e disprezzava i farisei.

















































Lev Trotsky
MORALISTI E SICOFANTI CONTRO IL MARXISMO

Moralisti e sicofanti contro il marxismo venne scritto da Lev Trotsky nel giugno del 1939, in risposta all’Avvertenza che era stata aggiunta nel marzo dello stesso anno dall’editore francese al testo del libello La loro morale e la nostra, tradotto da Victor Serge.
Trotsky attribuì la tendenziosa prière d’inserer allo stesso Serge e lo attaccò personalmente.
Serge (avventurosa figura di rivoluzionario e di scrittore di origine russa ma di lingua francese, anarchico, quindi militante bolscevico, poi espulso dal partito e deportato in Siberia, infine emigrato in Francia e successivamente nel Messico; autore di opere fino a ieri quasi sconosciute e oggi ristampate in Francia con notevole successo) accenna confusamente nelle sue memorie a un «articolo» contro Trotsky, che nega di aver scritto.


Trafficanti d’indulgenze e alleati socialisti ovvero il cuculo nel nido d’un altro

Il libello La loro morale e la nostra ha almeno il merito di avere costretto certi filistei e sicofanti a smascherarsi completamente. I primi ritagli di giornali francesi e belgi che mi sono pervenuti ne sono testimoni. Il più chiaro nel genere è il resoconto apparso sul giornale cattolico «La Croix». Quei signori possiedono un loro sistema e non provano alcuna vergogna a difenderlo. Essi sostengono la morale assoluta e, prima d’ogni altra cosa, il macellaio Franco. E’ Dio che lo vuole. Dietro a loro procede un Igienista Celeste che raccatta e ripulisce tutte le sporcizie cadute nella loro scia. Non è affatto sorprendente ch’essi condannino come spregevole la morale dei rivoluzionari che assumono in proprio le loro responsabilità. Ciò che ci interessa in questo momento, non sono i professionisti del traffico di indulgenze, ma i moralisti che rinunciano a Dio col cercare di sostituirsi a Lui.
Il giornale socialista di Bruxelles «Le Peuple» – dove va mai a ficcarsi la virtù – non ha trovato nel nostro libro null’altro che una formula criminale per costituire cellule segrete nell’intento di perseguire il più immorale fra gli scopi: quello di scalzare il prestigio e i proventi della burocrazia operaia belga. Naturalmente, si potrebbe replicare che questa burocrazia si è macchiata di innumerevoli tradimenti, di truffe pure e semplici (basti rammentare la faccenda Banca Operaia), che essa smorza qualsiasi lume di pensiero nella classe operaia, che – nella sua morale pratica – essa non è minimamente superiore alla sua alleata politica, la gerarchia cattolica. Ma innanzitutto, solo degli screanzati farebbero menzione di cose tanto sgradevoli; in secondo luogo, tutti questi signori, quali che siano i loro peccati veniali, fanno provvigione dei più elevati principi della morale. Henri de Man vi sovrintende di persona, e dinanzi alla sua alta autorità, naturalmente, noi bolscevichi non possiamo sperare nessuna indulgenza.
Prima di passare ad altri moralisti, soffermiamoci un istante su un’«Avvertenza»* pubblicata dagli editori francesi del nostro piccolo libro. Per la natura che le compete, una «Avvertenza» raccomanda un libro o, almeno, descrive oggettivamente quale ne è il contenuto. Quello che abbiamo davanti, invece, è un prospetto di tipo diverso.

* «Si tratta di un libro scritto di recente. Per Trotsky, non vi è una morale in sé, non morale ideale né eterna. La morale è relativa a cia-scuna società, a ciascuna epoca, relativa soprattutto agli interessi delle classi sociali. Nell’ora attuale, la maggior parte dei paesi vivono in una morale borghese. Nei paesi a democrazia liberale, gli interessi della borghesia sono mascherati da una morale ideale, conforme beninteso agli interessi della borghesia.
La vera morale deve difendere gli interessi dell’umanità stessa, rappresentata dal proletariato. Trotsky pensa che il suo partito, un tempo al potere e oggi all’opposizione, abbia sempre rappresentato il vero proletariato e lui stesso la vera morale.
Ne conclude per esempio questo: fucilare degli ostaggi prende un significato affatto differente a seconda che l’ordine venga impartito da Stalin o da Trotsky, o dalla borghesia. Quest’ordine è moralmente valido se ha quale scopo e quale effetto tattico la vittoria rivoluzionaria del proletariato. Così Trotsky difende il decreto ch’egli ha emesso nel 1919 e che autorizzava il sistema degli ostaggi (moglie e figli dell’avversario …), mentre giudica abominevole il medesimo sistema, allorché viene applicato da Stalin (che, per esempio, per far rientrare in Russia un diplomatico minaccia la famiglia di costui) perché Stalin agisce in tal modo per difendere la burocrazia contro il proletariato.
Trotsky, riferendosi a Lenin, dichiara che la meta giustifica i mezzi (a condizione che i mezzi non siano vani: esempio, il terrori-smo individuale è, in genere, vano). Nessun cinismo in questo atteggiamento, ma, dice l’autore, stretta attinenza ai fatti. Trotsky dichiara di avere di questi fatti una consapevolezza avvertita, che costituisce il suo senso morale.
Il contenuto di quest’opera non è indubbiamente del tutto nuovo, ma mai era stato espresso con tanta chiarezza e formulato così nettamente. Per una vasta categoria di intellettuali e di scrittori di sinistra, l’astuzia e la violenza sono sempre in sé delle cose cattive, che non possono che generare il male. Per Trotsky, l’astuzia e la violenza, se sono messe al servizio di uno scopo giustificato, devono venire impiegate senza esitazioni e rappresentano, in tal caso, il bene.».

[«Avvertenza» delle Editions du Sagittaire a La loro morale e la nostra di Lev Trotsky, tradotto da Victor Serge.]
Basti fornirne un esempio: «Trotsky pensa che il suo partito, un tempo al potere e oggi all’opposizione, abbia sempre rappresentato il vero proletariato e lui stesso la vera morale. Ne conclude per esempio questo: fucilare degli ostaggi prende un significato affatto diverso a seconda che l’ordine venga imparti-to da Stalin, o da Trotsky …». La citazione è sufficiente a farci apprezzare il commentatore che sta fra le quinte. E’ diritto incontestabile di un autore controllare un’«Avvertenza». Ma poiché nel nostro caso l’autore si trovava al di là dei mari, un «amico», approfittando apparentemente della carente informa-zione dell’Editore, riuscì a infilarsi nel nido di un altro e depositarvi il suo piccolo uovo: oh!, un uovo al-quanto piccolo, quasi virginale. Chi è l’autore di questa «Avvertenza»? Potrebbe facilmente indicarcelo Victor Serge, che ha tradotto il libro e che ne è al contempo il critico più severo. Non mi sorprenderei s risultasse che il brano è stato scritto … non da Victor Serge, naturalmente, ma da uno dei suoi discepoli che imita altrettanto bene sia le idee sia lo stile del maestro. O forse, dopotutto, non sarà stato il mae-stro medesimo, vale a dire Victor Serge, nella sua qualità di «amico» dell’autore?


«Morale da Ottentotti!»

Suvorin e altri sicofanti si sono immediatamente impadroniti, com’è naturale, di tale «Avverten-za», che gli risparmiava il fastidio di cercare nuovi velenosi sofismi. Se Trotsky prende degli ostaggi, è bene; se lo fa Stalin, è male. Di fronte a una simile «morale da Ottentotti», non è difficile manifestare una nobile indignazione. E tuttavia nulla è più facile da dimostrare, sulla base di quest’esempio, recen-tissimo, la vuotaggine e la falsità di quell’indignazione. Victor Serge è divenuto pubblicamente membro del POUM, partito catalano che aveva le sue milizie al fronte durante la guerra civile. Al fronte, è noto-rio, si spara e si uccide. Si potrebbe dunque dire: «Per Victor Serge, i massacri hanno un senso affatto differente a seconda che l’ordine venga dato dal generale Franco o dai dirigenti del partito cui Victor Serge appartiene». Se il nostro moralista avesse provato a riflettere sul significato dei propri atti, prima di impancarsi a insegnare agli altri, avrebbe probabilmente detto questo: ma gli operai spagnoli lotta-vano per l’emancipazione del popolo, mentre le bande di Franco lottavano per ridurlo in schiavitù! Ser-ge non potrà inventare altra risposta. Ossia, dovrà ricorrere all’argomento «Ottentotti»* di Trotsky circa gli ostaggi.

* Non ci tratterremo oltre, qui, sull’abitudine miserabile che consiste nel riferirsi con disprezzo agli Ottentotti allo scopo di conferire ancora maggior risalto alla morale degli schiavisti bianchi. Il nostro libello ne ha discorso a sufficienza. (N.d.A.)

Ancora a proposito di ostaggi

Nondimeno, è possibile e anzi probabile che i nostri moralisti rifiuteranno di dire francamente come stanno le cose, tenteranno di tergiversare: «Uccidere al fronte è un conto; fucilare degli ostaggi, un altro!». Quest’argomento, come dimostreremo, è assolutamente stupido. Fermiamoci un istante sul terreno scelto dal nostro avversario. Il sistema degli ostaggi, voi dite, è immorale «in sé»? Bene, è quan-to volevamo sapere. Tale sistema è stato praticato nel corso di tutte le guerre civili della storia antica e moderna. E’ evidente ch’esso dipende dalla natura stessa della guerra civile. Non si può trarne che una sola conclusione: ossia, che la natura stessa della guerra civile è immorale. E’ il punto di vista del giornale «La Croix», il quale reputa che sia necessario obbedire ai poteri costituiti, giacché il potere emana da Dio. E Victor Serge? Egli non ha alcun punto di vista meditato. Deporre un piccolo uovo nel nido altrui, è una cosa, definire la propria posizione in rapporto a dei complessi problemi storici, un’altra. Ammetto volentieri che persone d’una moralità tanto trascendentale quanto Azaña, Caballero, Negrin e Co. si oppongano a qualsiasi cattura di ostaggi nel campo fascista: da ambo le parti si trovano dei borghesi, stretti da legami materiali e familiari, convinti poi che, anche in caso di sconfitta, non soltanto potranno salvarsi, ma altresì conservare i loro mezzi di sussistenza. A modo loro, hanno ragione. Ma i fascisti, per parte loro, hanno preso degli ostaggi fra i rivoluzionari proletari e, a loro volta, i proletari han preso degli ostaggi fra la borghesia fascista, poiché sapevano quale minaccia una sconfitta, fosse pure parziale e temporanea, implicava per loro e i loro fratelli di classe.
Lo stesso Victor Serge non può dire con esattezza ciò che vuole: purgare la guerra civile dal si-stema degli ostaggi, o purgare la storia umana dalla guerra civile? Essendo incapace di inquadrare i fe-nomeni nelle loro relazioni interne, il moralista piccolo-borghese pensa in maniera episodica, frammen-taria, sconnessa. Isolata artificialmente, la questione degli ostaggi, per lui, è un problema a sé, indipen-dente dalle condizioni generali che generano le lotte fra le classi in armi. La guerra civile è l’espressione suprema della lotta di classe: tentare di subordinarla a delle «norme» astratte significa, in effetti, disar-mare i lavoratori che fronteggiano un nemico armato sino ai denti. Il moralista piccolo-borghese è il fratello cadetto del pacifista borghese che vuole «umanizzare» la guerra proibendo l’uso dei gas tossici, il bombardamento delle città aperte, ecc. Politicamente, tali programmi non servono che a stornare le masse dal pensare alla rivoluzione come al solo mezzo di por fine alla guerra.

La paura dell’opinione pubblica borghese

Impastoiato da queste contraddizioni, il moralista potrebbe argomentare che una lotta «aperta» e «consapevole» fra i due campi, è una cosa, ma che la cattura di non-partecipanti a tale lotta, un’altra. Tuttavia, l’argomento addotto non sarebbe che un miserabile e stupido sotterfugio. Nel campo franchi-sta si battevano decine di migliaia di uomini che erano stati raggirati e arruolati sotto costrizione. Gli eserciti repubblicani han sparato su quegli sventurati prigionieri di un generale reazionario e hanno uc-ciso un gran numero di essi. Ciò era morale o immorale? Peggiore ancora, la guerra moderna, con la sua artiglieria a lunga gettata, la sua aviazione, i suoi gas tossici, col suo corteggio di distruzione, di carestia, di Incendi e di epidemie, implica inevitabilmente la perdita di centinaia di migliaia di individui, vecchi e bambini compresi, che non partecipano direttamente alla lotta. Le persone prese come ostaggi sono strette da legami di classe e di solidarietà familiare a uno degli opposti campi, o ai dirigenti di esso. Prendendo degli ostaggi, si può procedere a una selezione consapevole. Un proiettile scagliato da un cannone o sganciato da un aereo è affidato al caso e può facilmente distruggere non soltanto dei nemici ma altresì degli amici, o i loro genitori e i loro figli. Perché allora i nostri moralisti isolano dal contesto la questione degli ostaggi e chiudono gli occhi sul contenuto della guerra civile nel suo insieme? Perché non sono particolarmente coraggiosi. In quanto uomini di «sinistra», essi hanno paura di romperla definitivamente con la rivoluzione. In quanto piccolo-borghesi, hanno paura di tagliare i ponti con l’opinione pubblica ufficiale. Condannando il sistema degli ostaggi essi si sentono in buona compagnia: contro i bolscevichi. Essi passano vigliaccamente sotto silenzio la Spagna. Contro il fatto che i lavoratori spagnoli, gli anarchici e gli aderenti al POUM abbiano catturato degli ostaggi, Victor Serge protesterà … fra vent’anni.

Il codice morale della guerra civile
Alla medesima categoria appartiene un’altra scoperta di Victor Serge, ossia che la de-generazione dei bolscevichi risale al momento in cui la Ceka fu investita del diritto di decidere della sor-te delle persone a porte chiuse. Serge giocherella col concetto di rivoluzione, ci scrive sopra dei poemi, ma è incapace di comprendere cosa sia.
I processi pubblici non sono possibili che nell’ambito di regimi stabili. La guerra civile è una situazione di estrema instabilità per la società e per lo Stato. Così come è impossibile pubblicare sui giornali i piani dello stato maggiore, è altrettanto impossibile rivelare nel corso di processi pubblici i dettagli dei complotti, poiché questi ultimi sono intimamente connessi allo svolgimento della guerra ci-vile. Senza dubbio, i processi a porte chiuse aumentano considerevolmente il pericolo di errori giudizia-ri. Ciò significa semplicemente, e lo concediamo di buona grazia, che le condizioni della guerra civile sono poco favorevoli all’esercizio di una giustizia imparziale. E che si dovrebbe dire di più?
Noi proponiamo che Victor Serge sia nominato presidente di una commissione compo-sta, per esempio, da Marceau Pivert, Suvorin, Waldo Franck, Max Eastman, Magdeleine Paz e altri anco-ra, per redigere un codice morale della guerra civile. Il carattere complessivo ne sarebbe chiaro a priori. Le due parti s’impegnano a non prendere ostaggi. I processi pubblici resteranno in vigore. Perché possa-no svolgersi correttamente, è lasciata la più ampia libertà alla stampa per l’intera durata della guerra ci-vile. Il bombardamento delle città, essendo pregiudizievole alla giustizia pubblica, alla libertà di stampa e all’inviolabilità dell’individuo, è formalmente vietato. Per altre ragioni simili o diverse, è prescritto l’uso dell’artiglieria. E, visto che i fucili, le bombe a mano e persino le baionette esercitano incontesta-bilmente un’influenza nefasta sugli esseri umani così come sulla democrazia in generale, l’utilizzazione delle armi – siano armi da fuoco o armi bianche – è formalmente vietata nella guerra civile.
Codice meraviglioso! Magnifico monumento in onore della retorica di Victor Serge e di Magdeleine Paz! Nondimeno, fin tanto che questo codice resterà inaccettato quale regola di condotta per tutti gli oppressori e per tutti gli oppressi, le classi in lotta cercheranno di riportare la vittoria con ogni mezzo, mentre i moralisti piccolo-borghesi continueranno, come han fatto finora, a vacillare pieni di confusione fra i due opposti campi. Soggettivamente, essi simpatizzano con l’oppresso: nessuno ne dubita. Oggettivamente, essi restano prigionieri della morale propria alla classe dirigente e cercano di imporla agli oppressi, invece di aiutarli a elaborare la morale dell’insurrezione.

Le masse non vi hanno niente a che vedere

Victor Serge ha svelato, di passaggio, ciò che avrebbe provocato il crollo del partito bolscevico: l’eccessivo centralismo, la diffidenza nei confronti della lotta ideologica, la mancanza di spi-rito libertario. Maggior fiducia nelle masse, maggiore libertà! Tutto ciò è campato in aria. Le masse non sono mai esattamente identiche: vi sono masse rivoluzionarie; vi sono masse passive; vi sono masse rea-zionarie. Le medesime masse sono, in periodi differenti, ispirate da propositi e da obiettivi diversi. E’ ap-punto per questa ragione che è indispensabile un’organizzazione centralizzata dell’avanguardia. Solo un partito che eserciti effettivamente l’autorità conquistata è capace di superare gli ondeggiamenti delle masse stesse. Far indossare alle masse i panni della santità e ridurre il proprio programma a una demo-crazia «amorfa» vuol dire dissolversi nella classe quale essa è, trasformarsi da avanguardia in retroguar-dia e, di conseguenza, rinunciare ai propri compiti rivoluzionari. D’altra parte, se la dittatura del proletariato significa qualcosa, essa significa che l’avanguardia della classe si arma delle risorse pertinenti dello Stato per respingere ogni minaccia, ivi comprese quelle provenienti da settori più arretrati del proletariato stesso. Tutto ciò è elementare; tutto ciò è stato dimostrato dall’esperienza della Russia e confermato dall’esperienza della Spagna.
Il segreto sta nel fatto che, domandando la libertà «per le masse», Victor Serge in realtà domanda la libertà per sé e per i suoi pari, domanda la libertà da qualsiasi controllo, da qualsiasi disci-plina e addirittura, se possibile, da qualsiasi critica a suo riguardo. Quando il nostro «democrate» corre da destra a sinistra e da sinistra a destra, seminando il dubbio e la confusione, egli crede d’essere l’incarnazione di una salutare libertà di pensiero. Ma quando noi giudichiamo da un angolo visuale mar-xista i vacillamenti di un intellettuale piccolo-borghese disilluso, gli sembra che ciò sia un oltraggio alla sua individualità. Egli s’allea in tal caso a tutti i confusionari per partire in crociata contro il nostro dispotismo e il nostro settarismo.
La democrazia all’interno di un partito non è uno scopo in sé. Essa deve essere comple-tata e tenuta insieme dal centralismo. Per un marxista la domanda è sempre stata la seguente: la demo-crazia per che cosa? Per quale programma? Inquadrare il programma equivale a inquadrare la democra-zia. Victor Serge chiedeva che la IV Internazionale concedesse la libertà d’azione a tutti i confusionari, i settari e i centristi del POUM del tipo Vereecken e Marceau Pivert, ai burocrati conservatori del tipo Sneveevliet o a dei semplici avventurieri del tipo R. Molinier. D’altra parte, Victor Serge ha sistematica-mente aiutato le organizzazioni centriste a cacciare dai loro ranghi i partigiani della IV Internazionale. Conosciamo a menadito questo genere di democrazia: essa è compiacente, accomodante, conciliatrice … verso la destra; al contempo essa è esigente, malevole e scaltra …verso la sinistra. Essa rappresenta semplicemente il regime di autodifesa del centrismo piccolo-borghese.

La lotta contro il marxismo

Se l’atteggiamento di Victor Serge riguardo i problemi teorici fosse serio, egli avrebbe dovuto trovarsi imbarazzato di farsi avanti come «novatore» per poi rinviarci a Bernstein, Struve, e a tutti i revisionisti del secolo scorso che hanno tentato di innestare il kantismo sul marxismo o, in altri termini, di subordinate la lotta di classe del proletariato a princìpi cosiddetti superiori. Sul modello di Kant, essi descrivevano l’«imperativo categorico» (l’idea di dovere) come una norma assoluta di morale, valida per tutti. In realtà, si trattava di un «dovere» sottomesso alla società borghese. A loro modo, Bernstein, Struve, Vorländer avevano un atteggiamento di serietà nei confronti del pensiero scientifico. Essi chiedevano apertamente un ritorno a Kant. Victor Serge e i suoi pari non avvertono la minima responsabilità verso il pensiero scientifico. Essi si attengono ad allusioni, insinuazioni, o meglio, a generalizzazioni letterarie. Nondimeno, se le loro idee sono del tutto false, sembra che vengano a congiungersi a una vecchia causa ormai screditata: asservire il marxismo al kantismo, paralizzare la rivoluzione sociale per mezzo delle norme «assolute» che, in effetti, rappresentano la generalizzazione filosofica degli interessi della borghesia; non la borghesia odierna, è vero, ma la defunta borghesia dell’era del libero scambio e della democrazia. La borghesia imperialista rispetta ancor tali norme di quel che non facesse la sua antenata liberale. Ma essa considera con occhio benevolo i tentativi fatti dai predicatori piccolo-borghesi per introdurre la confusione, il turbamento e l’esitazione nei ranghi del proletariato rivoluzionario. Lo scopo essenziale, non soltanto di Hitler ma altresì dei liberali e dei democratici, è di screditare il bolscevismo nel momento in cui la sua legittimità minaccia di diventare assolutamente chiara alle masse. Il bolscevismo, il marxismo: ecco il nemico!
Quando il «fratello» Victor Basch, gran sacerdote della morale democratica, fabbrica, con l’aiuto del «confratello» Rosenmark, un falso per difendere i processi di Mosca, si smaschera pubbli-camente. Accusato di falso, si batte il petto e strilla: «Sarei dunque fazioso? Io, che ho sempre denunciato il terrore di Lenin e di Trotsky?». Basch rivela il movente profondo dei moralisti democratici: alcuni possono tacere a proposito dei processi moscoviti, altri possono attaccare i processi, altri ancora possono difenderli; ma la loro preoccupazione comune sta nell’utilizzare i processi per condannare la «morale» di Lenin e Trotsky, vale a dire i metodi della rivoluzione proletaria. In questo campo, son tutti fratelli.
Nella scandalosa «Avvertenza» che ho citato più sopra, si dichiara che io sviluppo il mio punto di vista sulla morale «riferendo(mi) a Lenin». Si è autorizzati a pensare che questa frase mal defi-nita, riprodotta da altre pubblicazioni, significhi che io sviluppo i principi teorici di Lenin. A mia cono-scenza, Lenin non ha mai scritto alcunché sulla morale. In effetti, Victor Serge voleva dire qualcosa di assolutamente diverso, ossia che le mie idee immorali sono una generalizzazione della pratica di Lenin, l’«amoralista». Egli cerca di screditare la personalità di Lenin tramite i miei concetti, e i miei concetti tramite la personalità di Lenin. Egli non fa che assecondare la tendenza generale reazionaria che è rivol-ta contro il bolscevismo e il marxismo nel loro insieme.

Suvorin il sicofante

Ex pacifista, ex comunista, ex trotskista, ex comunista-democratico, ex marxista … ex Suvorin, si potrebbe dire, Suvorin attacca la rivoluzione proletaria e i rivoluzionari tanto più sfrontata-mente in quanto egli stesso non sa cosa vuole. Quest’uomo ama collezionare citazioni, documenti, vir-gole e virgolette, accumulare documenti, e per giunta, sa maneggiare la penna. In origine, egli aveva sperato che tale bagaglio gli sarebbe durato per tutta la vita. Ma fu presto costretto a persuadersi che occorreva altresì saper pensare. Il suo libro su Stalin, nonostante l’abbondanza di citazioni e di episodi interessanti, è un buon testimone della sua indigenza. Suvorin non comprende né quel che è la rivolu-zione né quel che è la contro-rivoluzione. Egli applica al processo storico i criteri di un piccolo ragiona-tore ferito intimamente dall’autorità peccatrice. La sproporzione fra il suo spirito critico e la sua impo-tenza creativa lo corrode come un acido. Da lì, vengono la sua costante esasperazione, la sua mancanza di onestà elementare nell’apprezzamento di idee, di uomini e di eventi. Il tutto coperto da un acido mo-ralismo. Come tutti i cinici e i misantropi, Suvorin è attirato organicamente dalla reazione.
Suvorin ha forse rotto apertamente col marxismo? Non ne abbiamo mai sentito parlare. Egli preferisce l’equivoco: è il suo elemento naturale. Nella sua critica al mio libello, egli scrive: «Ancora una volta Trotsky inforca il suo prediletto giocattolo, la lotta di classe». Per il marxista di ieri la lotta di classe è …«il prediletto giocattolo di Trotsky». Non sorprende affatto che Suvorin, quanto a lui, abbia preferito porsi a cavalcioni del cane morto della morale eterna. Egli oppone alla concezione marxista «il senso di giustizia … prescindente dalle differenze di classe». E’ comunque rassicurante l’apprendere che la nostra società è fondata su un «senso di giustizia». Nella prossima guerra, Suvorin andrà di certo a e-sporre la sua scoperta ai soldati nelle trincee; nel frattempo, può fare altrettanto con gli invalidi dell’ultima guerra, i disoccupati, i bimbi abbandonati e le prostitute. Se durante questa sua missione, venisse fatto a pezzi, dobbiamo confessare fin d’ora che il nostro «senso di giustizia» non prenderebbe le sue parti.
Le critiche fatte da questo apologista sfrontato della giustizia borghese «prescindente dalle differenze di classe» si basano esclusivamente sull’«Avvertenza» ispirata da Victor Serge. A sua vol-ta quest’ultimo, in ogni suo tentativo di «teorizzazione» non va oltre gli imprestiti eterogenei di Suvorin, il quale tuttavia ha il merito di esprimere quel che Serge non ha il coraggio di dire.
Con una finta indignazione – non c’è nulla di sincero in lui –, Suvorin scrive che – essen-do stabilito che Trotsky condanna la morale dei democratici, dei riformisti, degli staliniani e degli anar-chici – ne consegue che il solo rappresentante della morale è il «partito di Trotsky», e siccome tale par-tito «non esiste», in ultima analisi l’incarnazione della morale è dunque il medesimo Trotsky. Come trat-tenere le risate? Suvorin immagina stando alle apparenze d’essere capace di distinguere fra ciò che esi-ste e ciò che non esiste. E’ una faccenda semplice, fin tanto che si tratta di uova strapazzate o d’un paio di bretelle. Ma, nella scala del processo storico, una tale distinzione passa ben al di sopra della testa di Suvorin. «Ciò che esiste» nasce o muore, si sviluppa o si disintegra. Ciò che esiste non può essere com-preso che da colui che ne comprende le intime tendenze.
Si possono contare sulle dita le persone che han mantenuto una posizione rivoluziona-ria allo scoppio dell’ultima guerra. La grande scena della politica ufficiale era quasi interamente ricoper-ta dalle diverse tendenze dello sciovinismo. Liebknecht, la Luxemburg, Lenin sembravano individui isola-ti, impotenti. Ma vi è forse il minimo dubbio che la loro morale era superiore alla morale bestiale dell’«unione sacra»? La politica rivoluzionaria di Liebknecht non era affatto «individualista», come sem-brava allora al filisteo patriota medio. Al contrario, Liebknecht, e Liebknecht solo, rifletteva e prefigura-va le tendenze profonde, sotterranee, delle masse. Il corso ulteriore degli avvenimenti lo ha pienamente confermato. Non temere oggi una completa rottura con l’opinione pubblica ufficiale, in modo da otte-nere il diritto di esprimere domani le idee e i sentimenti delle masse insorte, ecco un modo particolare d’esistenza che differisce dall’esistenza empirica dei formalisti piccolo-borghesi. Tutti i partiti della so-cietà capitalista, tutti i suoi moralisti e i suoi sicofanti periranno sotto le rovine della catastrofe immi-nente. Il solo partito che sopravviverà sarà il partito della rivoluzione socialista mondiale, anche se oggi possa sembrare inesistente ai ciechi razionalisti, esattamente come era loro parso inesistente il partito di Lenin e di Liebknecht durante l’ultima guerra.

I rivoluzionari e i portatori d’infezioni

Engels ha scritto un giorno che Marx e lui stesso erano rimasti per tutta la loro vita in minoranza e che se ne erano sempre «trovati bene». I periodi in cui il movimento delle classi oppresse si innalza al livello dei compiti generali della rivoluzione rappresentano le rarissime eccezioni della storia. Le disfatte degli oppressi sono assai più frequenti che le vittorie. Dopo ogni disfatta, viene un lungo pe-riodo di reazione che rigetta i rivoluzionari in uno stato di crudele isolamento. Gli pseudo-rivoluzionari, i «cavalieri di un’ora», come dice un poeta russo, o tradiscono apertamente la causa dell’oppresso, in tali periodi, oppure corrono dappertutto alla ricerca di una formula di salvezza che gli permetta di evitare la rottura con l’uno o con l’altro degli opposti campi. Nella nostra epoca, è inconcepibile credere che si possa trovare una formula conciliativa nel dominio dell’economia politica o della sociologia; le contraddizioni di classe hanno rovesciato per sempre la formula dell’«armonia» cara ai liberali e ai riformisti democratici. Resta il dominio della religione e della morale trascendentale. I «socialisti-rivoluzionari» russi han tentato di salvare la democrazia alleandosi con la Chiesa. Marceau Pivert sostituisce la Chiesa con la Massoneria. Apparentemente, Victor Serge non ha ancora aderito ad alcuna loggia, ma non ha difficoltà a impiegare lo stesso linguaggio di Pivert contro il marxismo.
Due classi decidono delle sorti dell’umanità: La borghesia imperialista e il proletariato. L’ultima risorsa della borghesia è il fascismo, che rimpiazza i criteri storici e sociali con le norme biologi-che e zoologiche, in modo da sottrarsi a qualsiasi restrizione nella lotta in difesa della proprietà capitali-stica. La civiltà non può essere salvata che dalla rivoluzione socialista. Per portare a termine tale rivolgi-mento, il proletariato ha bisogno di tutte le sue forze, di tutta la sua determinazione, di tutta la sua au-dacia, di tutta la sua impietosa passione. Sopra ogni cosa, esso deve essere interamente liberato dalle imposture della religione, della «democrazia» e della morale trascendentale: tutte catene forgiate dal nemico per fiaccarne l’orgoglio e ridurlo in schiavitù. E’ morale soltanto ciò che prepara il rovesciamen-to totale e definitivo della bestialità capitalista, e nient’altro. La salvezza della rivoluzione: ecco la legge suprema!
Una chiara comprensione delle correlazioni esistenti fra le due classi fondamentali – la borghesia e il proletariato all’epoca della loro lotta mortale – ci rivela il significato oggettivo della parte interpretata dai moralisti piccolo-borghesi. Il loro elemento essenziale è l’impotenza: impotenza sociale a motivo della degradazione economica della piccola borghesia; impotenza ideologica a motivo della paura della piccola borghesia di fronte al mostruoso scatenarsi della lotta di classe. Da lì nasce la ten-denza del piccolo-borghese, colto o ignorante, a frenare la lotta di classe. Se non può riuscirvi per mez-zo della morale eterna – e non può riuscirvi – il piccolo-borghese si butta fra le braccia del fascismo, il quale frena la lotta di classe valendosi dei miti e dell’ascia del carnefice. Il moralismo di Victor Serge e dei suoi pari è un ponte che conduce dalla rivoluzione alla reazione. Suvorin si trova già dall’altra parte del ponte. La minima concessione a queste tendenze significherebbe l’inizio della resa di fronte alla rea-zione. Che questi portatori d’infezione vadano a inoculare le norme della morale a Hitler, a Mussolini, a Chamberlain, a Daladier. Quanto a noi, il programma della rivoluzione proletaria ci basta.


Coyoacan, 9 giugno 1939

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