Blog della sezione di Massa Carrara del Partito Comunista dei Lavoratori

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mercoledì 27 luglio 2016

Il golpe turco e le sue conseguenze nello scenario mediorientale

19 Luglio 2016
golpe turchia


Il tentativo di golpe che è andato in scena in Turchia nella notte tra il 15 ed il 16 luglio rappresenta il punto di precipizio di tredici anni di storia recente del paese anatolico avviluppati intorno alla figura di Tayyip Erdogan, fondatore dell'AKP.

Abbandonati da tempo i panni del leader che ha guidato le trattative per l'adesione della Turchia alla UE, Erdogan ha seguito negli ultimi anni, in particolare dall'esplosione della grande crisi nel 2008, una politica costruita intorno all'ambizione di trasformare la Turchia non solo in un interlocutore necessario per le faccende mediorientali, ma in una vera e propria potenza regionale riconosciuta. L'asse portante di questo progetto è la ristrutturazione istituzionale che Erdogan e l'AKP portano avanti da anni, permessa da una decennale espansione economica, e incentrata su una lenta e moderata ma costante islamizzazione dello Stato.
La chiave di volta per lanciare internazionalmente il progetto è stata l'esplosione delle primavere arabe, che Erdogan ha cercato di cavalcare al massimo grado per accreditarsi come guida politica dell'islam sunnita moderato.

Nei confronti dell'Unione Europea, Erdogan ha mantenuto negli anni un atteggiamento opportunista, debuttando come campione dell'europeismo nei primi anni del suo governo quando il progetto UE era ancora sulla cresta dell'onda, ma tendendo a costruire relazioni più vantaggiose, ma non per questo idilliache, con gli stati dell'Unione con cui la Turchia è economicamente più esposta (la Germania è per la Turchia il primo paese per esportazioni ed il secondo per importazioni), più che una vera politica di ingresso.
Con l'avanzare della crisi e l'impasse del progetto dell'UE, la Turchia ha spostato sempre più il proprio baricentro politico verso il Medio Oriente, scontrandosi però con la realtà delle macerie che il fallimento delle rivoluzioni arabe hanno lasciato. Non è un caso che l'ultima fase della politica estera di Erdogan sia stata segnata da una vera e propria spregiudicatezza per quanto concerne la guerra civile siriana: per perseguire il doppio obbiettivo dell'abbattimento di Assad e dello schiacciamento del movimento curdo, il presidente turco non ha esitato a sostenere più o meno indirettamente l'ISIS, in particolare per quello che riguarda la capacità di movimento e di spostamento lungo i confini turchi, cercando in tutti i modi di ostacolare la resistenza curda e aggiungendo all'atavico odio per i curdi il malcelato desiderio di trarre beneficio da una “balcanizzazione” della Siria, strappandone i territori settentrionali.

L'ambizioso progetto di affermarsi come “sultano democratico” ha iniziato a conoscere le prime battute d'arresto con il precipitare nella barbarie delle primavere arabe e con il tracollo, l'uno dopo l'altro, di ciascuno dei suoi alleati nei paesi chiave; dall'affermazione di Al Sisi in Egitto a discapito dei Fratelli Musulmani e di Morsi; dalla perdita del governo del partito di Ennahda in Tunisia fino al precipitare della situazione siriana.
Mano a mano che lo scenario si è andato complicando, Erdogan ha dato prova di straordinario eclettismo tattico e di assenza di scrupoli: nel pieno delle primavere arabe ha giocato la carta obbligata della difesa degli interessi arabi contro Israele, arrivando ad un fronteggiamento di facciata col governo sionista tra il 2008 ed il 2012, periodo che va dalla guerra d'aggressione israeliana a Gaza (Operazione Piombo Fuso) fino all'incidente della Mavi Marmara in cui i commandos israeliani uccisero dieci cittadini turchi sulla nave che tentava di sfidare il blocco di Gaza.
La mancata caduta di Assad e il ruolo sempre maggiore dei curdi nella guerra all'ISIS hanno spinto Erdogan fino a fargli tirare la corda con la Russia di Putin arrivando all'incidente dell'abbattimento del caccia russo. L'isolamento internazionale e il logoramento nei rapporti con tutti i paesi vicini che la sua politica estera da saltimbanco ha prodotto, hanno portato Erdogan a scendere recentemente a più miti consigli, aprendo a un raffreddamento della tensione con la Russia e siglando un accordo storico con Israele al ribasso che è suonato come una vera e propria resa delle ambizioni di guida politica del mondo sunnita.

In uno scenario così complesso, hanno fatto irruzione tre diverse mobilitazioni contro Erdogan e il suo governo, da tre versanti diversi: in prima battuta, l'erompere delle straordinarie e drammatiche settimane della rivolta popolare partita da Gezi Park nel maggio del 2013, e sfociata in un vero e proprio movimento anti-Erdogan, contro le sue leggi liberticide e la sua politica guerrafondaia in Siria. La polizia di Erdogan ha represso ferocemente il movimento, che ha contato anche numerosi morti, ma ha aperto uno squarcio nella solidità e nella credibilità di Erdogan come leader politico nazionale e internazionale agli occhi delle forze imperialiste e dello stesso capitalismo turco.
L'anno successivo, nell'ottobre del 2014, sono i curdi turchi a sollevarsi in una vera e propria intifada che coinvolge tutto il sud-est del paese contro Erdogan, smaccatamente lanciato nella sua politica di sostegno all'ISIS in funzione tanto anti-Assad quanto anti-resistenza curda in Rojava, sotto attacco delle milizie dell'autoproclamato califfato islamico.
A queste due straordinarie rivolte popolari si è sommata tra il maggio ed il giugno del 2015 un'ondata di scioperi selvaggi organizzati dai lavoratori metalmeccanici turchi contro i divieti al diritto di sciopero imposti dal governo a guida AKP, portando, finalmente, delle rivendicazioni propriamente classiste nell'arena politica turca.
Il combinarsi di tutti questi elementi ha arenato le ambizioni del presidente turco e aperto esplicitamente una fase di crisi di consenso anche interno, culminata col l'arretramento elettorale delle elezioni del giugno 2015 e, contemporaneamente, aperto la fase dello stragismo di Stato per tutta la seconda metà del 2015, culminata con la strage del 10 ottobre al corteo per la pace. Le elezioni di fine 2015 consegnano una Turchia spaccata tra il sostegno nuovamente sopra il 50% all'AKP, con tanto di maggioranza parlamentare assoluta (ma non sufficiente per le riforme istituzionali presidenziali desiderate) da un lato, e il mantenimento della rappresentanza parlamentare dell'HDP curdo e la tenuta del partito tradizionale della borghesia europeista turco, il Partito Popolare Repubblicano, sopra il 25%.


IL TENTATIVO DI GOLPE, PUNTO DI PRECIPIZIO DELLA CRISI IN TURCHIA

Al netto dei suoi aspetti tecnici ancora tutti da chiarire, il tentativo di golpe militare andato a vuoto segna una spaccatura netta nella borghesia turca tra il fronte europeista (forse sarebbe più corretto dire “occidentalista”) e il fronte di Erdogan, che a questo punto potremmo chiamare neo-ottomano, stante la fusione di interessi di potenza regionale e islamizzazione delle istituzioni e della società. La politica spericolata di Erdogan, il continuo muoversi sul filo del rasoio nei rapporti con l'Occidente e con l'UE, le disavventure siriane, il raffreddamento della tensione con la Russia e l'altalena con Israele segnano il punto di una fase di enorme destabilizzazione di quello che dovrebbe essere il principale baluardo NATO in Medio Oriente. In questo quadro i golpisti hanno cercato la complicità dell'Occidente: non è un caso che i media internazionali nelle primissime fasi del putsch riportassero dei virgolettati accreditati ai portavoce dei militari che parlavano di “azione per riportare democrazia e libertà”.
La criticità della situazione turca e dei suoi rapporti con il mondo occidentale si misura per intero nelle lunghe ore di ambiguo silenzio che hanno preceduto i primi pronunciamenti formali, con il paradosso dell'aereo presidenziale dato in volo per l'Europa senza che nessuno dei governi amici ne autorizzasse l'atterraggio. Solo quando il quadro si è andato delineando con chiarezza, Obama e Merkel hanno rotto gli indugi prendendo le parti del “governo democraticamente eletto”.
Silenzi che testimoniano quantomeno la volontà di rimanere in un primo momento alla finestra, per capire il da farsi, e che sono indice dell'imbarazzo che il campo occidentale ha nelle sue relazioni con Erdogan. Ma forse anche la malcelata speranza di poter fare i conti con una Turchia stabilizzata senza il suo presidente, e proiettata di nuovo verso l'Europa e l'Occidente, senza più ambizioni “ottomane”.

Tre fattori politici hanno inciso a cascata sul fallimento del golpe: in primo luogo il consenso di massa che Erdogan mantiene in ampi settori di piccola borghesia e di proletariato turco che ha saputo mobilitare in sua difesa, consenso che solo fino a un anno fa sembrava evaporare; in seconda battuta, l'impasse del progetto dell'Unione Europea e l'aggravarsi della sua crisi economica e politica (di cui la Brexit rappresenta l'ultimo tassello in ordine di tempo) hanno enormemente indebolito l'appeal che un progetto di integrazione turca in Europa poteva avere, togliendo ossigeno al fronte occidentalista e kemalista e continuando invece a soffiare il vento, sia pure altalenante, nelle vele dell'AKP - e che è servito esattamente a tenere sotto la brace la base di massa del consenso che si è manifestato nel riversamento in piazza di migliaia di manifestanti a difesa del presidente; in terza battuta, l'irrisolta crisi mediorientale mantiene la Turchia nella condizione privilegiata di essere un ingranaggio fondamentale nell'area malgrado la politica estera da saltimbanco del suo leader, e questo, unito alla debolezza delle alternative politiche borghesi turche, ha fatto sì che dall'Occidente non venisse un immediato via libera - esplicito o meno - al tentativo dei golpisti, fattore che nelle ore decisive ha senz'altro contribuito a limitare l'adesione di altri settori delle stesse forze armate.
Il combinato disposto di questi tre fattori ha contribuito al fallimento del golpe e alla vittoria di Erdogan, che è potuto atterrare all'aeroporto di Istanbul, facendosi salutare da quel bagno di folla che ogni aspirante Bonaparte non può farsi mancare.

L'esito del tentativo di golpe consegna un Erdogan non solo sopravvissuto, ma con un suo straordinario rafforzamento e rilancio politico, almeno nel breve periodo, tanto sul piano interno quanto su quello internazionale.
L’immediata, seppur temporanea, chiusura della base di Incirlik, punto nevralgico delle operazioni americane per la guerra civile siriana, ha fatto da base materiale al braccio di ferro diplomatico che il presidente turco ha subito avviato nei confronti dei suoi formali alleati atlantici, il cui asse è la richiesta agli USA della consegna di Fethullah Gülen, l’ex alleato, poi acerrimo nemico di Erdogan, rifugiato negli States dopo gli scandali per corruzione che dilaniarono l’AKP nel 2013, scandali nei quali Erdogan ha sempre sostenuto essere parte attiva il movimento Hizmet di Gülen.
Tramontato in questa fase il sogno di guidare il mondo arabo sunnita, il presidente turco può tentare di sfruttare l’ossigeno riconquistato sconfiggendo il golpe a partire almeno da due punti cruciali tra loro combinati, su cui può tornare a giocare delle carte importanti.
Dal versante curdo, la simpatia dei governi occidentali che i combattenti del Rojava si sono guadagnati con la forza della loro resistenza in prima fila nella lotta all’ISIS può far emergere i curdi come elemento negoziatore nella regione, con esiti potenzialmente deflagranti nella politica interna turca, anche dopo i lunghi anni di trattative tra il PKK di Ocalan e l’autorità turca, e malgrado la presenza del Kurdistan iracheno a guida Barzani, più interessato a gestire l’estrazione autonoma del petrolio nell’alveo dell’Iraq e a rivenderlo alla stessa Turchia che non a perseguire un progetto di unità nazionale kurda. Un Erdogan redivivo può sperare di imporre un veto a questa possibilità.
L’altro punto riguarda la questione dei migranti e dei profughi, argomento di tensioni già particolarmente acute e sempre crescenti tra Turchia ed UE, in particolare con la Germania; argomento che adesso potrebbe essere utilizzato come arma di ricatto con ancora più vigore.

La straordinaria mobilitazione della sua base sociale di riferimento in sua difesa ha svelato un enorme potenziale plebiscitario cui Erdogan non ha tardato a tentare di dare continuità (l'appello “restate in piazza”), col preciso scopo di consolidare un nuovo rapporto di forza a livello generale che segnerebbe la fine della grande fase di ascesa dei movimenti anti-Erdogan partiti da piazza Taksim, proseguiti con la sommossa kurda di fine 2014 e giunta ai tentativi di alzare la testa da parte della classe operaia industriale turca nel 2015. La crisi di consenso che Erdogan ha incontrato in questo biennio e culminata con la débâcle elettorale delle elezioni del giugno 2015, surrettiziamente arginata nella fase dello stragismo di Stato, ha conosciuto un primo arresto con le ultime elezioni. Oggi questa fase appare chiusa, ed Erdogan può vantare un rinnovato consenso che può essere, e sarà, investito dal presidente turco per completare il proprio disegno istituzionale reazionario, già in buona parte avviato, e che aveva recentemente conosciuto il passaggio dell’abolizione dell’immunità parlamentare, come arma contro le opposizioni: la tanto agognata riforma presidenziale (con annessa guardia pretoriana presidenziale) potrebbe passare attraverso un referendum che rischia di essere plebiscitario e che consegnerebbe ad Erdogan non solo ampio margine di manovra nella stretta autoritaria interna, ma anche la possibilità di presentarsi di nuovo al mondo come garante forzato della democrazia e della stabilità. Tale passaggio conosce in queste ore gli innumerevoli arresti e le purghe di enormi fette di società turca.

Su tutto questo giocheranno ovviamente un ruolo le resistenze sociali e la dinamica della lotta di classe. Lo stato dell'arte di oggi ci consegna importanti lezioni sul ruolo che la sinistra politica e sociale ha giocato negli anni passati, dei suoi errori e dei compiti che attendono i rivoluzionari per invertire la rotta.


IL RUOLO DEI RIVOLUZIONARI

Una stagione straordinariamente difficile si apre in Turchia per i rivoluzionari. Non è dato sapere ancora in che forme la stretta autoritaria di Erdogan ne limiterà ancora di più l’agibilità politica, o se addirittura arriverà a minacciarla per intero. Quello che è certo è che una grande stagione di mobilitazione, apertasi con la rivolta di Gezi Park, si è oggi chiusa. Il rovescio negativo dei due anni, pur straordinari e drammatici, di lotte contro il potere di Erdogan è stata l’assenza del movimento operaio organizzato con le sue proprie forme di lotta dall’arena dello scontro. La ribellione di Gezi Park, nata in prima battuta sull’onda di un movimento ambientalista, si è rapidamente trasformata come reazione alle violenze poliziesche in un grande movimento di massa contro il governo. Questo movimento era caratterizzato da una composizione eterogenea ed interclassista, in cui le rivendicazioni più incisive, come ad esempio quella per uno sciopero generale prolungato sino alla cacciata del governo, non erano sul piatto nelle settimane della mobilitazione, se non come rivendicazioni minoritarie dei marxisti rivoluzionari del DIP (Devrimsci Isci Partisi, Prtito Rivoluzionario dei Lavoratori).
Questa assenza ha impedito al movimento ogni salto qualitativo in avanti e ha concorso ad indebolirlo, prestando il fianco alla reazione poliziesca. L’altro grande assente da Gezi Park, in forma organizzata, è stato il movimento kurdo: sorpresa dall’esplosione della ribellione nel bel mezzo delle trattative per il processo di pace portate avanti da Ocalan e dal PKK, la direzione del movimento kurdo ha preferito non rischiare di mandare a monte il processo in corso e ha scelto un profilo defilato per rimanere marginale nello scontro. Il prezzo pagato dai kurdi per il fatto che Erdogan sia rimasto al potere è stato altissimo: non solo la Turchia ha favorito in tutti i modi possibili l’ISIS, sperando che questo schiacciasse la resistenza di Kobane e della Rojava, ma ha scatenato, a seguito della ribellione kurda del 2014, una vera a propria guerra civile poliziesca contro i suoi stessi cittadini kurdi nel sud-est del paese, di cui l’assedio di Cizre, con decine di morti, feriti, sospensione dell’energia elettrica, shut-down di ogni forma di comunicazione, è l’emblematico sigillo.

Le direzioni della sinistra turca e delle principali organizzazioni kurde non sono esenti da responsabilità per lo stato attuale dei rapporti di forza nell’area. Le sinistre politiche riformiste o centriste, tanto turche quanto kurde, hanno sperato, dopo i risultati del 7 giugno 2015, di poter disarcionare Erdogan investendo elettoralmente le grandi ribellioni degli anni passati. In quei mesi si ventilava l’ipotesi di una grosse koalition turca intorno al partito liberale borghese CHP; un fronte eterogeneo che avrebbe avuto il sostegno più o meno indiretto dell’HDP ma anche delle organizzazioni legate a Fetullah Gulen.
Lo scioglimento del parlamento ad agosto, lo stragismo e il risultato elettorale di novembre, hanno scombinato ancora una volta le carte in tavola, e questo ha probabilmente contribuito a precipitare gli eventi del golpe. In uno scenario la cui complessità è paragonabile solo alla sua drammaticità, il Partito Rivoluzionario dei Lavoratori si è trovato in solitaria ad indicare la strada corretta: gli unici alleati possibili per il popolo kurdo sono il proletariato turco e quello arabo. Non c’è amicizia possibile per i lavoratori turchi e arabi e per il popolo kurdo con le borghesie imperialiste, almeno quanto non c'è possibile amicizia con l’odiato Erdogan e il suo progetto ottomano. Sperare, tanto dentro la Turchia quanto fuori dai suoi confini, che l’imperialismo possa diventare un alleato dei kurdi per riconoscenza, per il ruolo che sostengono nella lotta contro l’ISIS, significa non avere il senso della realtà. La lotta esemplare di resistenza che i combattenti del Rojava oppongono al fascismo islamista di Al Baghdadi e del suo sedicente califfato non può diventare una merce di scambio per sperare di ottenere il favore di qualche benefattore imperialista, giocando sull’incredibile caos in cui è precipitato tutto il Medio Oriente, perché il risultato è facilmente pronosticabile: la svendita della lotta fondamentale per l’emancipazione e per l'unità del Kurdistan.

Eppure le principali direzioni kurde mantengono posizioni con l'imperialismo che oscillano tra l’apertamente colluso e il pericolosamente ambiguo: il PDK di Barzani, al potere nell’Kurdistan irakeno, come detto, è una forza borghese che lavora con il preciso intento di massimizzare i profitti derivati dall’estrazione del petrolio, e in cambio si pone come garante della rimozione della questione nazionale kurda, fungendo al contempo anche come bilanciamento al PKK.
Il PKK, che da par suo è da anni impegnato in un lungo braccio di ferro col governo turco per ottenere un’analoga autonomia federale amministrativa, e la sua propaggine siriana - il PYD - governa la regione del Rojava, dove è impegnato, come detto, nella strenua lotta di prima linea contro l’ISIS. Malgrado ciò, il suo obbiettivo politico in questa fase non è l’unificazione del Kurdistan, né tanto meno lo spezzamento dell’attuale sistema statale e la costruzione di un Kurdistan socialista, bensì l’investimento del peso militare che ha assunto nell’area nella negoziazione di spazi di autonomia federale, rispettosa del capitalismo e della proprietà privata.
Le vicende del proletariato turco, di quello arabo e quelle del popolo kurdo sono intrinsecamente connesse.

La soluzione della questione kurda, la conquista dell’unità nazionale, non può che avvenire se non in un quadro di rottura della geografia che la borghesia ha disegnato per il Medio Oriente addirittura più di cent’anni fa, mettendo in discussione i confini degli stati borghesi esistenti a partire dalla Turchia stessa. Proprio per questo motivo, non esiste alcuno spazio democratico possibile per la soluzione della questione nazionale kurda, esattamente come non esistono spazi democratici di stabilizzazione del Medio Oriente all’interno del capitalismo in crisi.
Da rivoluzionari, siamo completamente a sostegno dell’attività dei compagni del DIP, impegnati nella prospettiva della costruzione dell’alleanza tra la classe operaia turca e il popolo kurdo, unico binomio in grado di squassare le fondamenta dello stato turco.
Il rilancio della prospettiva di una federazione socialista araba, la rivendicazione dell’unità del proletariato turco con quello arabo e la loro alleanza con i popoli oppressi kurdo e palestinese, la messa in discussione dell’esistenza dei confini borghesi e del progetto politico sionista d’Israele, sono i punti cardine fondamentali che indicano l’unica via d’uscita possibile al macello in corso in Medio Oriente.
In questo quadro, la necessità della rifondazione di un partito internazionale della rivoluzione si fa ogni giorno più urgente. È lo strumento che serve al proletariato di tutto il mondo per unirsi nella comune battaglia contro il capitalismo in crisi, contro gli imperialismi di ogni colore che si avventano su ogni lembo di terra per contendersi fino all’ultima unghia di profitto e di potere, contro gli aspiranti tiranni come Erdogan e i tiranni già di fatto come Al Baghdadi.
Il PCL, con tutti i suoi militanti, è impegnato quotidianamente in Italia come sul piano internazionale nella battaglia fondamentale per la rifondazione della Quarta Internazionale.
Nicola Sighinolfi

venerdì 22 luglio 2016

Documento politico conclusivo del Comitato Centrale del PCL di luglio 2016

12 Luglio 2016
CC LUGLIO

  LA NATURA REAZIONARIA DELLA BREXIT.
PER UNA ALTERNATIVA DI CLASSE E SOCIALISTA ALLA UNIONE EUROPEA

La vittoria della Brexit, riflesso della crisi dell'Unione Europea, ha un segno reazionario.
Il No greco alla troika del luglio del 2015 era espressione di un'opposizione sociale di massa, segnata da rivendicazioni di classe e democratiche, poi tradite da Tsipras. La Brexit ha una valenza non solo diversa ma opposta. La campagna pro-Brexit è stata ispirata e diretta da forze reazionarie, apertamente antioperaie e antipopolari, attorno a una campagna centrata sulla contrapposizione ai migranti e sullo sciovinismo britannico. Una campagna che è riuscita a dirottare contro la UE un blocco sociale composito (settori di classe lavoratrice, la maggioranza della popolazione povera delle periferie e delle campagne, ampie fasce di piccola borghesia impoverita) capitalizzando la rabbia sociale prodotta da decenni di austerità e privazioni. La crisi del movimento operaio inglese, dentro la crisi più generale del movimento operaio europeo, ha favorito questo sbocco. Le forze diverse della sinistra che in nome di ragioni progressive o addirittura anticapitaliste hanno sostenuto la Brexit, si sono di fatto subordinate a questa dinamica reazionaria, commettendo un grave errore politico.
L'Unione Europea degli stati capitalisti è irriformabile da un punto di vita sociale e democratico. Le illusioni dell'europeismo riformista (Partito della Sinistra Europea) sono state smentite una volta di più dalla capitolazione di Tsipras alla troika. Ma un'alternativa alla UE può avere carattere progressivo solo a partire da una mobilitazione di classe e di massa che nei diversi paesi e su scala continentale metta in questione le politiche, i partiti, i governi della borghesia. La mobilitazione prolungata e di massa che a partire da marzo ha percorso la Francia contro la Loi Travail di Hollande, incidendo nel profondo sullo scenario sociale e politico francese, indica la possibile alternativa di classe alle soluzioni nazionaliste, reazionarie, xenofobe. La parola d'ordine strategica degli Stati Uniti socialisti d'Europa è la sola che può dare una prospettiva storica progressiva alla necessaria ripresa dell'iniziativa di classe in Europa, contro i governi borghesi e la loro Unione.


I RIFLESSI POLITICI DELLA BREXIT IN EUROPA

La Brexit ha aperto di fatto una fase politica nuova in Europa.
In Gran Bretagna contribuisce a riproporre, per reazione, le questioni nazionali irrisolte di Scozia e Irlanda. Nel continente alimenta tendenze contrastanti. Da un lato sospinge le iniziative composite del fronte reazionario e nazionalista in diversi paesi (Francia, Olanda, Danimarca, Austria) con analoghi contenuti xenofobi e sciovinisti. Ma dall'altro può favorire tendenze alla stabilizzazione politica conservatrice nel nome della “sicurezza contro il caos”, a fronte delle ricadute di crisi economica e bancaria che la Brexit ha alimentato: una campagna che può fare presa in ampi settori popolari e di piccola borghesia in particolare attorno alla difesa del risparmio. Il risultato delle elezioni spagnole, con l'ampia vittoria del Partito Popolare e il mancato sorpasso del PSOE da parte di Podemos, è stato segnato anche dalla reazione alla Brexit. Hollande e Renzi si propongono a loro volta di cavalcare la campagna “sicurezza” nei rispettivi paesi.

Le conseguenze della Brexit sul piano della crisi capitalista e delle relazioni statuali interne all'Unione sono altrettanto complesse e andranno verificate nel tempo.

È presto per valutare se la Brexit potrà aprire una nuova fase di aggravamento della crisi economica internazionale. Di certo, nell'immediato, l'annunciato distacco della Gran Bretagna dalla UE minaccia il sistema bancario europeo, segnato da diversi punti di crisi (crisi delle banche italiane e portoghesi, difficoltà delle banche tedesche e francesi). Il contenzioso sulla Unione bancaria e sulla sua regolazione interna occupa dunque una volta di più il negoziato tra i principali stati capitalisti, sotto il segno di una nuova emergenza economica.
A sua volta il negoziato sulla Unione bancaria ripropone di fatto tutti i nodi irrisolti della crisi della Unione Europea: il fallimento del fiscal compact, le contraddizioni paralizzanti del suo quadro istituzionale, i contrasti tra gli interessi nazionali (come analizzati dall'ultimo CC).
Anche su questo piano il fattore Brexit sembra agire in forme contraddittorie. Da un lato la Brexit è essa stessa un effetto esplosivo delle contraddizioni europee. E per alcuni aspetti le approfondisce. Dall'altro lato proprio l'emergenza prodotta, e l'allontanamento della Gran Bretagna, possono sospingere la ricerca di nuovi equilibri pattizi tra i principali Stati imperialisti europei. Che saranno tuttavia condizionati nel loro esito non solo dai rapporti di forza interstatuali, ma anche dal ristretto margine di manovra dei governi borghesi sul fronte del proprio consenso interno, alla vigilia di appuntamenti elettorali di grande rilevanza (elezioni presidenziali in Francia, elezioni legislative in Germania, referendum istituzionale italiano).


LA SITUAZIONE POLITICA ITALIANA. LA CRISI DEL RENZISMO. LE ELEZIONI DI GIUGNO

La situazione politica italiana si pone in questo quadro generale.

Il renzismo è in aperta crisi. Il progetto del partito della nazione, mirato allo sfondamento elettorale del nuovo corso renziano, ha registrato una sconfitta. I risultati elettorali delle elezioni comunali segnano una perdita consistente del PD in larga parte d'Italia, con una flessione più accentuata nelle periferie metropolitane e nel Mezzogiorno. Il significato politico è chiaro: il renzismo ha esaurito da tempo la spinta propulsiva di quel populismo sociale di governo (operazione '80 euro') che ne aveva accompagnato l'ascesa nelle elezioni europee del 2014. Già le elezioni regionali del 2015 registravano la dispersione di quel patrimonio di consenso. Le elezioni comunali di giugno confermano e aggravano il dato. La sconfitta del renzismo non è solo elettorale, ma politica. Il renzismo si era offerto alla borghesia italiana ed europea come l'argine vincente contro il populismo di opposizione. La vittoria del M5S a Roma e Torino contraddice esattamente quella funzione di contenimento. La stessa legge elettorale (Italicum) coniata da Renzi a misura delle proprie ambizioni di sfondamento rischia di trasformarsi oggi in un possibile strumento dei suoi rivali.

Il Movimento 5 Stelle è il vincitore politico delle elezioni del 5 giugno, al di là del suo stesso risultato elettorale, contraddittorio. Il M5S capitalizza diversi elementi della situazione politica, tra loro connessi. Non solo l'appannamento del renzismo, ma anche la frantumazione politica del centrodestra, con la sua contraddizione irrisolta tra berlusconismo in declino e un asse lepenista che segna il passo. Soprattutto capitalizza la crisi perdurante della sinistra politica, sullo sfondo della crisi sociale e dell'arretramento della lotta di classe. Da qui la sua straordinaria capacità di richiamo trasversale su elettorati di diversa matrice e provenienza, la sua diffusione nazionale (a differenza del salvinismo), il suo consenso concentrato presso la giovane generazione, in particolare tra operai, precari, disoccupati. Ciò che rende il M5S un vincitore naturale nei ballottaggi.
A partire dalla conquista di Roma e Torino, e a fronte della crisi del renzismo, il M5S accelera la propria candidatura al governo nazionale, moltiplicando la ricerca di una propria legittimazione presso gli ambienti dominanti, interni e internazionali. Anche da qui l'importanza della controinformazione classista sulla natura reazionaria di massa del M5S. Una denuncia tanto più essenziale di fronte al moltiplicarsi delle aperture verso il grillismo da parte di settori della sinistra riformista o centrista.

La sinistra politica conferma il proprio stato di crisi. Pur in presenza della crisi del renzismo, Sinistra Italiana ha registrato un arretramento rispetto ai risultati delle liste Tsipras nelle elezioni europee del 2014. Il processo costituente del nuovo soggetto della sinistra è dunque ulteriormente zavorrato dal voto. Persistono tutti i fattori che ostacolano il suo decollo: non solo il peso delle disfatte passate, ma l'assenza di un progetto nazionale dotato di una ragione sociale decifrabile, la mancanza di una leadership riconoscibile a livello popolare, la crisi dei livelli di mobilitazione sociale cui quella stessa sinistra (politica e sindacale) concorre. In questo quadro il rafforzamento del M5S come soggetto attrattivo dell'elettorato in uscita dal PD oltre a rappresentare uno degli effetti della crisi della sinistra concorre ulteriormente ad aggravarla. A tutto ciò si aggiungono la lotta interna di cordate per l'egemonia sul processo costituente del nuovo soggetto (che attraversa la stessa SEL) e i contrasti politici sui nodi irrisolti nel rapporto col PD ed oggi anche con i Cinque Stelle.

In questo quadro generale, marcato dalla crisi congiunta del movimento operaio e della sinistra politica, dall'arretramento della coscienza e dalla espansione populista, il risultato complessivo riportato dal nostro partito, certo molto modesto, non è negativo. A Torino e Napoli abbiamo subito la concorrenza penalizzante della formazione di Rizzo (con l'aggiunta a Napoli dell'effetto particolarissimo del fenomeno “peronista” di De Magistris), ciò che ha determinato risultati negativi. Positivo il dato di Milano (con l'ampio recupero sul 2011), e molto positivo quello di Bologna e Savona (col superamento di ogni risultato precedente). Apprezzabili infine i risultati registrati nei comuni minori. Complessivamente, si conferma la positività della presentazione elettorale del partito ai fini della propaganda del nostro programma classista e anticapitalista e in funzione della nostra costruzione.


IL REFERENDUM ISTITUZIONALE COME SPARTIACQUE

I risultati elettorali di giugno, insieme al fenomeno Brexit, si riverberano sullo scenario politico nazionale di prospettiva. La crisi del renzismo è precipitata alla vigilia del referendum istituzionale (presumibilmente in ottobre) nel quale il capo del governo ha investito le fortune decisive del proprio progetto bonapartista. Da qui l'incertezza accresciuta del suo esito, tanto più in un quadro di crisi economica e di relazioni europee che non favoriscono nuovi margini di finanziamento di misure di populismo sociale (aumento delle pensioni minime, riduzione Irpef...). Al tempo stesso gli effetti di destabilizzazione prodotti dalla vicenda Brexit possono riconfigurare in parte, a determinate condizioni, il profilo della posta in gioco nella percezione popolare (un "voto per la sicurezza" vs l'"avventura dell'ignoto"). Questa è la nuova impostazione che il renzismo tenderà a dare alla prova per cercare di rimontare la china. Un passaggio che in ogni caso acquista oggi obiettivamente una rilevanza internazionale molto maggiore.

L'esito del referendum può costituire, per diversi aspetti, uno spartiacque nella situazione politica italiana, con diverse incognite.

Se Renzi perde lo scontro referendario, sarà il tracollo definitivo del renzismo come progetto populista bonapartista. Ciò che determinerebbe una dinamica nuova, presumibilmente convulsa, di riorganizzazione degli equilibri politici e degli schieramenti, capace di investire formule di governo, legge elettorale, rapporti interni ai partiti (a partire dal PD). Si riproporrebbe, in altre forme, quel quadro di crisi di direzione politica della borghesia italiana che il renzismo ha provato a superare. Il M5S sarebbe nell'immediato il principale beneficiario di quell'esito, anche se paradossalmente privato in quel caso della legge elettorale più idonea per la sua ambizione di potere. Una contraddizione non secondaria.

Se Renzi vincerà lo scontro referendario, si affermerà un nuovo modello istituzionale reazionario, con nuove pesanti ricadute sociali (salto della governabilità antioperaia). Renzi farà leva sulla vittoria plebiscitaria per stabilizzare il proprio corso politico, cercando di sviluppare i suoi aspetti di regime. Al tempo stesso la fluidità dei flussi elettorali, sullo sfondo della crisi sociale, potrebbe ostacolare anche in quel caso l'ambita stabilizzazione politica, a favore di un M5S che uscito sconfitto dal referendum potrebbe beneficiare dell'Italicum che il referendum stesso sancisce. L'ipotesi di una affermazione del M5S alle prossime elezioni politiche, per quanto oggi prematura, non può più essere esclusa dalle prospettive possibili. Ciò che porrebbe nuove incognite non solo al movimento operaio, ma alla stessa borghesia italiana circa la stabilizzazione del proprio quadro politico.


LA CENTRALITÀ DELLA BATTAGLIA CLASSISTA

Su tutto lo scenario politico e sulla variabilità delle prospettive grava la crisi perdurante del movimento operaio italiano. Nessuna variante progressiva è possibile, quale che sia l'esito del referendum, senza una ripresa della mobilitazione sociale, di classe e di massa. Da qui la necessità di ricondurre la nostra battaglia per il No al referendum ad una ragione di classe riconoscibile: combinando la valorizzazione del fronte unico per il No a sinistra (contro ogni logica di separatismo minoritario), con la netta differenziazione politica sia dalle impostazioni puramente accademico-costituzionaliste, sia dalle torsioni populiste (il No "filo-Brexit"). Più in generale l'intero scenario nazionale ed europeo conferma la centralità della battaglia classista, in particolare tra i lavoratori e i giovani, contro tutte le varianti di populismo interclassista, e contro ogni forma di subalternità a sinistra verso il populismo.
Partito Comunista dei Lavoratori - Comitato Centrale

venerdì 1 luglio 2016

UE o Brexit: una falsa alternativa per i lavoratori

L'esito del referendum britannico e la lotta anticapitalista contro l'UE

25 Giugno 2016
Brexit

L'uscita della Gran Bretagna dalla UE apre un nuovo capitolo della crisi dell'Unione degli stati capitalisti del vecchio continente.

Da tempo a cavallo tra integrazione e dissoluzione, la UE ha visto moltiplicarsi nell'ultima fase le spinte disgregatrici. Il combinato della crisi capitalista, della prolungata stagnazione, della profonda crisi di consenso delle politiche di austerità ha sospinto un approfondimento delle contraddizioni nazionali nella UE . Il fiscal compact è virtualmente fallito senza che si delinei un nuovo equilibrio. L'Unione bancaria resta al palo, col rifiuto tedesco di una assicurazione europea sui depositi, mentre l'intero settore bancario europeo è investito da nuovi venti di crisi (crisi dei crediti deteriorati in Italia, crisi dei derivati nella finanza tedesca e nordica). Il riconoscimento o meno della Cina come economia di mercato amplifica il contrasto tra capitalismo tedesco (disponibile) e interesse opposto di Italia e Francia, minacciate sul proprio mercato interno dalla concorrenza asiatica. La pressione migratoria - fattore strutturale di lungo periodo - sospinge processi combinati di rinazionalizzazione dei confini, con la dissoluzione del blocco est-europeo a trazione tedesca e nuovi processi di polarizzazione politica xenofoba all'interno di diversi paesi. Fattore a loro volta di nuove spinte centrifughe e di effetti politici destabilizzanti all'interno dei diversi paesi dell'Unione.

La Brexit è stata un effetto di questo quadro generale di crisi, e al tempo stesso concorre ad approfondirlo.


LA NATURA DELL'OPERAZIONE CAMERON. LA CITY A FAVORE DEL REMAIN

Lo scontro interno alla Gran Bretagna tra “remain” e Brexit ha visto affrontarsi su opposti versanti forze ugualmente nemiche dei lavoratori britannici e dei lavoratori europei. Sia sul fronte politico, sia sul fronte sociale.

Sul fronte politico, David Cameron ha ideato il referendum sull'appartenenza della Gran Bretagna alla Unione Europea in funzione del proprio rafforzamento nel partito conservatore e nel governo, contro i propri avversari interni, lungo la linea di continuità dell'attacco ai lavoratori britannici. Prima la promessa del referendum, poi il negoziato con la UE, infine la campagna a favore del remain brandendo le “concessioni” ottenute in sede UE (contro i diritti sociali degli stessi immigrati comunitari), hanno perseguito un solo obiettivo: incassare il plauso popolare per coronare la propria ambizione politica. La disfatta della cinica operazione ha sancito la fine politica di Cameron, a vantaggio di quegli stessi avversari interni (Boris Johnson) che puntava a sgominare.

Al di là degli scopi politici di Cameron, la campagna per il remain ha selezionato e raccolto attorno a sé il fiore della grande borghesia britannica: il cuore della City londinese, la principale piazza del capitale finanziario europeo; la grande borghesia industriale (l'80% degli aderenti alla Confindustria britannica ha aderito alla campagna); la maggioranza delle Camere di commercio (sia pure con una percentuale minore). La ragione del sostegno borghese maggioritario al remain è molto semplice: la UE rappresenta il 45% delle esportazioni del Regno Unito. Una uscita della Gran Bretagna dalla UE significa la rinegoziazione dell'accesso al mercato unico, in condizioni presumibilmente più difficili.

Per ragioni di classe complementari, la permanenza della Gran Bretagna nel Regno Unito era la speranza del grosso del capitalismo mondiale, delle grandi borghesie europee e dei loro governi nazionali, interessati ad evitare sia i contraccolpi economici della Brexit sul mercato finanziario, in una situazione già critica; sia un nuovo possibile fattore di incoraggiamento delle spinte centrifughe nell'Unione. Ma era la speranza anche degli Stati Uniti, da sempre alleato storico privilegiato della Gran Bretagna. La permanenza del Regno Unito nell'Unione rispondeva a molteplici interessi USA: preservare la principale piattaforma finanziaria delle proprie multinazionali e banche sul mercato europeo; mantenere una propria sponda politica fidata all'interno della UE; favorire una tenuta dell'Unione quale fattore di contenimento della crisi capitalistica mondiale ed anche possibile alleata ai fini del controbilanciamento della potenza cinese (accordi TTIP). Per tutte queste ragioni è indubbio che la vittoria della Brexit contraddice gli interessi dominanti del capitalismo internazionale. Il crollo delle borse di venerdì, proporzionale al loro investimento sulla permanenza nell'UE, è un primo metro di misura del contraccolpo subito.


BREXIT COME VITTORIA DEI LAVORATORI E DELLA DEMOCRAZIA?

Ma è perciò stesso la Brexit una vittoria dei lavoratori e della democrazia?
Colpisce il sostegno entusiasta alla Brexit di forze diverse della sinistra europea (e non solo). Come il tripudio ideologico per la sua "vittoria".

La campagna a favore della Brexit è stata ispirata e diretta dalle forze politiche più reazionarie del panorama inglese. Dallo UKIP xenofobo di Farage, alleato del M5S nel Parlamento europeo. Dai movimenti fascisti della Gran Bretagna. Dalle bande ostili a Cameron nel Partito Conservatore e nel governo stesso. Il tono ideologico della campagna è emblematico. Da un lato la campagna ossessiva contro i migranti: contro gli immigrati comunitari (inclusi i tanti giovani e lavoratori italiani emigrati) e la loro “pretesa” di diritti sociali; e tanto più contro i migranti extracomunitari e la loro presunta “invasione”, a partire dall'immagine simbolo dell'accampamento disperato di Calais, rappresentato come avamposto minaccioso della UE ai confini della patria. Dall'altro, la rivendicazione del peggiore sciovinismo all'insegna della nostalgia del vecchio impero britannico e della grande potenza inglese nel mondo. «Una grande potenza imperiale che potrebbe tornare a risorgere, se solo la gran Bretagna si liberasse della Unione Europea», ha testualmente annunciato Farage.

Anche settori della borghesia inglese si sono allineati al fronte della Brexit, a partire da un consistente settore delle Camere di commercio. Ai quali Boris Johnson si è così rivolto: «Noi potremo fare accordi con le economie emergenti del mondo intero, accordi che la UE è incapace di siglare a causa delle forze protezioniste europee. Liberiamoci delle catene dell'Unione.» (Le Monde). È la (improbabile) promessa al capitalismo britannico di un autonomo aggancio al mercato cinese aggirando l'Unione Europea e il suo contenzioso con la Cina. L'appello al libero mercato mondiale e alla sue umani sorti e progressive si combinava dunque col vezzo ideologico nazionalista, dentro un comune impasto reazionario.


UNA MINACCIA REAZIONARIA CONTRO I LAVORATORI

La vittoria di questo fronte reazionario è una minaccia per i lavoratori britannici e per il movimento operaio europeo.

Certo, un settore di classe lavoratrice e la maggioranza della popolazione povera delle periferie e delle campagne sono stati catturati dalle sirene della Brexit. La rabbia sociale accumulata dalla crisi capitalista e dalle politiche di austerità è stata dirottata con successo contro l'Unione Europea. Il ritorno mitologico alla “vecchia potenza inglese” è stato venduto come canale di riscatto sociale ed emancipazione. Ma si tratta di una cinica truffa, oggi rilanciata su scala continentale da tutti gli ambienti politici più reazionari d'Europa, a partire da Le Pen e Salvini.

Il capitalismo britannico e la sua sovrana sterlina non sono meno responsabili dell'Unione Europea per la miseria crescente dei lavoratori inglesi. Ben prima della UE, fu il governo - nazionalista - di Margaret Thatcher (quello che brandì la guerra all'Argentina sulle Malvinas) a realizzare il grande sfondamento liberista contro il movimento operaio (guerra ai minatori) e l'attacco frontale allo stato sociale. Blair e Cameron, nel quadro della UE (ma fuori dall'Euro), hanno amministrato la continuità devastante di quella politica, che Farage, già nelle vesti di deputato conservatore, e tanto più Boris Johnson, hanno fedelmente e attivamente sostenuto. Oggi proprio Boris Johnson, astro nascente della Brexit, si candida a gestire una nuova pesante stagione di austerità contro i lavoratori inglesi, e una stretta discriminatoria xenofoba contro gli immigrati. Naturalmente nel nome di "Britain First" e della guerra tra poveri. Presentare tutto questo, a sinistra, come "vittoria della democrazia" e come "esempio per i popoli europei" significa aver perso la testa.


CONTRO L'UNIONE EUROPEA, PER GLI STATI UNITI SOCIALISTI D'EUROPA

Siamo da sempre contro l'Unione Europea. Una Unione di stati capitalisti unicamente interessati a partecipare alla spartizione del mondo dopo il crollo dell'URSS, nel nuovo mercato globale. Per questo interessati a concertare le proprie politiche di rapina contro i propri lavoratori. Per la stessa ragione ci siamo sempre opposti e tanto più ci opponiamo oggi alle illusioni di una possibile UE “democratica e sociale”, portate avanti dai partiti di Sinistra Europea (Syriza, Rifondazione Comunista, Izquierda Unida, Die Linke, PCF...). Partiti che si sono ciclicamente compromessi nei diversi governi borghesi dell'Unione Europea gestendo le stesse politiche di austerità e di rapina che dall'opposizione dicevano di combattere. La capitolazione di Tsipras alla troika è solo l'ultimo esempio del fallimento del riformismo europeista.

Ma la lotta contro l'Unione Europea può procedere da opposti versanti, politici e di classe, e mirare ad opposte prospettive.

Può procedere dal versante dell'opposizione di classe del movimento operaio, a difesa delle proprie ragioni e diritti sociali. Come ha mostrato la lunga ascesa del movimento di massa in Grecia contro la troika prima del tradimento di Syriza. Come mostra oggi la mobilitazione di massa prolungata ancora in corso in Francia contro la Loi Travail del governo Hollande. Questa è la dinamica di lotta che ha valore progressivo, che può unire gli sfruttati, che può ricomporre attorno alla classe operaia un blocco sociale anticapitalista, che può alimentare una solidarietà di classe internazionale tra i lavoratori d'Europa. La proposta di una Europa socialista, nella forma degli Stati Uniti socialisti d'Europa, è l'unica proposta strategica capace di dare una prospettiva storica a questa dinamica di lotta. L'unica che può indicare un'alternativa reale all'Unione Europea del capitale, nell'interesse dei lavoratori.

La lotta contro l'Unione Europea e contro l'Euro oggi indicata dalla Brexit, e promossa dai Farage, Le Pen, Salvini, è non solo diversa, ma esattamente opposta. È la lotta che mira a far leva sulla crisi capitalista, e sulla mancata risposta del movimento operaio alla crisi, per costruire uno sbocco reazionario, in ogni paese e su scala continentale. All'insegna della continuità delle politiche di rapina, e di un nuovo drammatico appesantimento dell'offensiva dominante contro i diritti sociali, sindacali, democratici del movimento operaio europeo e di tutti gli oppressi.

Ogni subordinazione a questa dinamica reazionaria va apertamente denunciata e combattuta, tra le fila dei lavoratori, tra i giovani, in ogni organizzazione sindacale e di massa.
Partito Comunista dei Lavoratori

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