Blog della sezione di Massa Carrara del Partito Comunista dei Lavoratori

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mercoledì 15 gennaio 2014

Relazione 3° Congresso PCL



RELAZIONE DI APERTURA DEL TERZO CONGRESSO DEL PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI

Intervento di Marco Ferrando

12 Gennaio 2014



Relazione terzo

RELAZIONE CONGRESSO



Care compagne, cari compagni,


mai come oggi lo scenario europeo, la situazione italiana, la stessa costruzione del nostro partito, sono inseparabili dal quadro mondiale che fa loro da sfondo. A partire dalla più grande crisi capitalistica degli ultimi 80 anni.


Tre anni fa, quando tenemmo il nostro secondo Congresso, illustri economisti spiegavano che la crisi economica mondiale era finita e che era alle porte una fase nuova di stabilizzazione politica, in Europa e nel mondo. Noi avanzammo allora una previsione opposta : quella di un generale approfondimento delle contraddizioni del capitalismo internazionale, economiche e politiche.


E' quanto è avvenuto in questi tre anni. E' quanto si delinea in modo ancora più chiaro per gli anni futuri.




LA CRISI CAPITALISTA


La crisi capitalistica non è né rettilinea né uniforme. Nella grande anarchia del mercato mondiale ha combinato la seconda recessione in Europa, la continuità dello sviluppo cinese, la modesta ripresa americana e giapponese. Ma la profondità della crisi non è misurata dalla uniformità di un collasso, che non c'è. E' misurata dal fatto che a sette anni dal suo inizio nessun settore dell'economia mondiale- nessun Paese, nessun blocco imperialista, nessuna economia cosiddetta emergente, nessun settore produttivo e/o tecnologico (altro che Twitter)- è in grado di fare da locomotiva di una ripresa complessiva su scala internazionale.


E paradossalmente è misurata anche dalla ragione opposta: proprio dall'assenza di una precipitazione recessiva globale, capace di distruggere in modo concentrato le forze produttive in eccesso, e dunque di riprodurre le condizioni materiali di una ripresa. Perché sarà bene ricordare a tanti mitizzatori del New Deal che non fu Roosvelt a rilanciare lo sviluppo del capitalismo dopo la grande crisi degli anni 30. Fu la barbarie della guerra mondiale. Furono 50 milioni di morti. Non potrebbe esservi misura migliore della barbarie del capitalismo nella fase storica della sua decadenza. E delle minacce che incombono sulle prospettive dell'umanità.


Il mondo resta dunque gravato da un'enorme sovrapproduzione di merci che non trovano sbocco. Da qui l' empasse dell'economia mondiale. E da qui anche il fallimento di tutte le suggestioni keynesiane che popolano l'immaginario di tanti liberali alla Krugman e di tanta sinistra cosiddetta radicale. Altro che “crisi del liberismo” e richiesta di intervento dello Stato nell'economia! In questi sette anni abbiamo assistito al più grande intervento statale nell'economia di tutta la storia del capitalismo, con un volume di risorse pubbliche girate dagli Stati al capitale che è il doppio di quanto speso durante tutta la seconda guerra mondiale. 8000 miliardi di dollari girati ai capitalisti USA dal “progressista” Obama. 4300 miliardi di euro girate alle banche nella sola Europa, il 36% del PIL UE. Si chiama: socializzazione delle perdite, privatizzazione dei profitti. E' questo Keynesismo reale, così diverso da quello immaginario, ad essere miseramente fallito. Non solo non ha rilanciato la produzione ma ha finanziato una nuova gigantesca bolla finanziaria, ancor più grande di quella del 2007, che oggi coinvolge la stessa Cina, che grava come mina vagante sull'economia mondiale, e che è sospinta esattamente dal quadro irrisolto di sovrapproduzione internazionale.




LA CRISI DELL'IMPERIALISMO


Le contraddizioni montano parallelamente sul piano politico.
Sino a pochi anni fa, celebrate personalità della sinistra- da Chomsky a Bertinotti a Toni Negri- ci spiegavano, con tono oracolare, che la globalizzazione aveva uniformato il mondo, archiviando gli stessi stati nazionali, sotto la direzione onnipotente del cosiddetto Impero americano. Ebbene la realtà è non solo diversa, ma esattamente capovolta.


Gli Stati Uniti restano sicuramente la maggiore potenza imperialista. Ma la loro egemonia registra ovunque un progressivo declino. La linea di rilancio militare dei primi anni 2000 sotto la direzione repubblicana, è crollata sul fronte dell'Irak e dell' Afghanistan. Il progetto di svolta coltivato dall'amministrazione Obama verso una politica di concertazione mondiale si è anch'essa risolta in un sostanziale fallimento. Lo rivela il quadrante strategico del Medio Oriente, scosso dall'onda lunga delle rivoluzioni arabe e dal soqquadro delle relazioni storiche dell'imperialismo Usa. Mai come oggi l'imperialismo USA fatica a tenere il bandolo della politica mondiale.


Eppure, la crisi dell'egemonia americana nel mondo non si accompagna all'emergere di un'egemonia alternativa. Questo è un punto importante. Un secolo fa la crisi storica dell'egemonia britannica si accompagnava al progressivo emergere degli Stati Uniti. Oggi il possibile declino dell'egemonia americana, non delinea una direzione di ricambio della politica internazionale.


Non può certo rappresentarla l'Unione Europea, che vede anzi precipitare per molti aspetti il proprio peso: stretta com'è nella morsa tra l'impossibilità di un'avanzata organica dell'Unione e la minaccia di una sua disgregazione. Ma non può rappresentarlo neppure, ad oggi, la crescente potenza cinese.


Certo: la Cina è sicuramente una potenza ascendente, nel capitalismo mondiale, costruitasi sullo sfruttamento manchesteriano della più grande classe operaia del mondo. Gode di un tasso di sviluppo ancora molto consistente. Dispone di riserve valutarie enormi. Ha allargato progressivamente la propria presenza in Africa, a caccia di terre e di materie prime. Può consentirsi incrementi di spesa in armamenti del 7% nel solo ultimo anno.


Ma la potenza cinese è minata sul fronte interno da contraddizioni sociali esplosive. E resta priva delle leve decisive per una leaderschip mondiale alternativa. Non dispone, ad oggi, di una moneta concorrenziale col dollaro. Nè di una lingua universalmente competitiva. Nè di un proprio sistema di relazioni internazionali, al di fuori dell'Asia. E nella stessa Asia è pressata da potenze rivali, a partire dal Giappone: il cui rilancio nazionalista e militarista è esattamente la replica alla minaccia cinese, e aggrava il crinale dello scontro fra USA e Cina sul Pacifico.


Questa combinazione di una potenza americana in declino ma ancora dominante, e di una potenza cinese ascendente ma senza possibile egemonia alternativa è una misura dell'instabilità mondiale. Che moltiplica a sua volta, sui diversi scacchieri, l'ambizioso protagonismo di potenze minori: dell'imperialismo russo, della Turchia, delle petromonarchie del Golfo, in un coacervo di contraddizioni incontrollabili.


La conclusione è semplice: il tentativo di ricomporre un equilibrio mondiale dopo il crollo dell'URSS è semplicemente fallito. La più grande crisi del capitalismo degli ultimi 80 anni convive con la più grande crisi di direzione politica dell'imperialismo di tutto il secondo dopoguerra.




L'unica frontiera unificante del capitalismo internazionale è l'aggressione frontale al lavoro.


Proprio la competizione nella crisi sul mercato mondiale si scarica sulla classe operaia , con una brutalità sconosciuta a più generazioni. E' un aggressione che non conosce frontiere, investe Occidente e Oriente, coinvolge in forme diverse aree di sviluppo e di recessione, e conferma un dato di fondo: la chiusura dello spazio storico del riformismo. Prima la conclusione del boom post bellico nei primi anni 70, poi il crollo dell'URSS, infine la grande crisi iniziata nel 2007, hanno davvero distrutto, cumulandosi l'uno sull'altro, le sue basi materiali. Il bivio di prospettiva è netto: non tra riforme o rivoluzione, ma tra rivoluzione o reazione. O il movimento operaio darà la propria soluzione alla crisi sociale, sul terreno anticapitalista e rivoluzionario, o la reazione imporrà la propria contro il movimento operaio e i suoi diritti. Come all'inizio del 900, questo torna ad essere, in forme diverse, il crinale del mondo.


CRISI E NATURA DELL'UNIONE EUROPEA


L'Unione Europea è il paradigma più clamoroso di questa verità.


In questi 20 anni tutte le apologie dell'Unione sono state clamorosamente smentite. Non solo le mitologie liberali del mercato. Ma le leggende cosmiche che sono state propagate a sinistra, in tutte le loro varianti: dal modello virtuoso del capitalismo renano, alla favola di una possibile Europa sociale grazie a ministeri di sinistra o alla pressione dei movimenti.


Nella realtà della nuova competizione mondiale l'Unione Europea è stato il luogo di massimo arretramento delle condizioni sociali rispetto all'epoca precedente. E lo è stato sotto i governi capitalisti di ogni colore. Proprio quei governi della socialdemocrazia o del centrosinistra, che dovevano incarnare il compromesso sociale, sono stati in prima linea nell'azione di sfondamento anti operaio. Senza alcuna eccezione: da Prodi a Papandreu, da Schroder a Zapatero per arrivare a Hollande. Ed oggi proprio la parabola di Hollande dà l'ultimo colpo, se ve n'era bisogno, all'immaginario del riformismo europeo. Colui che era stato salutato appena un anno fa come il possibile grimaldello di un Europa sociale,ha regalato altri 20 miliardi ai padroni francesi, ha agevolato i licenziamenti, caccia i migranti con la più cinica brutalità, rilancia il militarismo coloniale in Africa.


La verità è che l'Unione Europea non è la fiaba che è stata raccontata: una specie di casa comune nella quale discutere planimetrie e arredo, chiamando il movimento operaio a dare il proprio contributo critico. L'Unione Europea è la casa comune dei capitalisti d'Europa contro il movimento operaio. E' la camera di compensazione tra i diversi e concorrenti imperialismi nazionali, i loro Stati, i loro governi, per concertare la comune rapina contro i propri lavoratori, la spartizione dei frutti della rapina, le garanzie reciproche di controllo sull'esecuzione della rapina all'interno dei diversi Paesi.


Questo è oggi il negoziato in corso tra Germania, Francia, Italia, Spagna: la socializzazione del debito verso le banche e la ricapitalizzazione delle banche. L'Unione Bancaria vorrebbe essere in fondo una sorta di cassa comune di resistenza tra i banchieri europei e i loro Stati, grazie alla quale le banche vedrebbero tutelato il proprio patrimonio e gli Stati potrebbero risparmiare risorse per assicurare gli interessi sul debito alle banche. Ma siccome c'è la crisi il piatto piange, i contrasti nazionali in Europa si acuiscono sotto pressione tedesca, l'Unione bancaria segna il passo.


Non c'è nessuna possibile riforma sociale o democratica di questa Unione di predatori. Al contrario. Ogni sopravvivenza dell'Unione Europea può solo passare per un aggravamento delle condizioni sociali in tutto il vecchio continente.


E al tempo stesso l'alternativa all'Unione non sta affatto nel ritorno alle monete nazionali. Vogliamo ribadirlo qui con estrema nettezza: la presunta alternativa tra Euro e monete nazionali, è una truffa contro i lavoratori d'Europa, non minore della truffa dell'Euro. Lo è innanzitutto dal punto di vista sociale: perchè nel quadro del capitalismo e della sua crisi, un ritorno alla dracma, alla peseta, alla lira sarebbe solo un'ulteriore occasione di saccheggio di salari e risparmi . Ma lo è tanto più sotto il profilo politico: perchè subordina settori di classe o allo sciovinismo nazionale del proprio imperialismo, o ad ambienti del peggior populismo reazionario. Ad ambienti che dietro la bandiera della sovranità nazionale e monetaria coprono l'aggressione alla classe operaia e ai suoi diritti democratici. Come mostra il montare del populismo reazionario in Europa e l'ascesa dei fascisti di Alba Dorata e Le Pen.


La verità è che l'alternativa non è tra euro e valute nazionali, ma tra capitale e lavoro: tra il potere dei capitalisti e il potere dei lavoratori. Tutte le soluzioni di ingegneria finanziaria che aggirano questo nodo, sono un inganno: sia che rivendichino la riforma della BCE e gli Eurobond, come Syriza e la “Sinistra Europea”, sia che rivendichino la sovranità nazionale tradita, magari in paesi imperialisti, come ambienti stalinisti di matrice KKE. Il punto decisivo non è la sovranità nazionale, ma la natura sociale del sovrano. Il punto non è se comanda Bruxelles o Roma, ma quale classe comanda a Bruxelles come a Roma. La classe capitalista o la classe lavoratrice? Questo è il nodo di fondo.


E questo nodo si pone in ogni paese e su scala europea. Nel 1915, nel cuore della prima guerra imperialista, Lenin scriveva:” Sotto il capitalismo, l'unificazione europea sarà impossibile o sarà reazionaria”. Esattamente 100 anni dopo possiamo dire che quella previsione è confermata a tal punto che l'attuale Unione è al tempo stesso impossibile E reazionaria. Non può procedere in avanti per le contraddizioni paralizzanti tra imperialismi nazionali, e al tempo stesso può sopravvivere solo contro i diritti sociali e contro le stesse costituzioni formali.
Solo il proletariato europeo può unificare l'Europa. Ma lo può fare solo rovesciando il capitalismo europeo. Solo su basi socialiste. Solo costruendo gli Stati Uniti Socialisti d'Europa.




LA CRISI DEL MOVIMENTO OPERAIO INTERNAZIONALE


Ma proprio la profondità della crisi del capitalismo, e l'attualità storica del socialismo quale unica soluzione progressiva, misura la crisi parallela del movimento operaio internazionale.


La crisi del movimento operaio non ha niente a che vedere con l'estinzione della classe o della sua centralità, come vorrebbero alcune culture antagoniste che nel nome della globalizzazione ignorano i due miliardi di salariati che popolano il globo.


Né ha a che vedere col deperimento strutturale delle sue potenzialità di lotta come affermano altre teorie impressioniste.


Certo. La crisi capitalista non ha prodotto ovunque, di per sé, la tendenza alla radicalizzazione di classe. Come conferma la storia la crisi economica può favorire le dinamiche sociali più diverse, nel suo intreccio con la parabola della lotta di classe nei diversi paesi. Tanto è vero che oggi il massimo di difficoltà della mobilitazione si è concentrato nei paesi imperialisti, a partire dagli Stati Uniti e dall'Europa, dove la crisi economica si è sovrapposta a una dinamica prolungata di arretramento ; e viceversa la tendenza ascendente della mobilitazione si è concentrata principalmente in Asia, che è stato il principale polo di sviluppo: a partire dalla Cina, dalla Cambogia, dal Bangladesh.


Ma più in generale, seppur in una quadro molto differenziato per paesi e continenti, le tesi disfattiste sulla lotta di classe non trovano il conforto dei fatti.
Ce lo dice ad esempio l'ascesa del movimento operaio in diversi paesi dell' America Latina, spesso in contrapposizione a quei governi borghesi progressisti idolatrati dalle sinistre europee. E' il caso dell'ascesa del proletariato argentino contro il governo Kitchner. Dello sviluppo del movimento operaio boliviano contro il governo Morales. Ed anche, a un livello minore, delle lotte operaie in Venezuela, come lo sciopero a oltranza nella grande fabbrica Sidor, contro le politiche di quel governo bolivariano che altri celebrano come il socialismo del xxi secolo.


Ce lo dicono anche dentro l'Europa capitalista, le sollevazioni proletarie che in Romania e Bulgaria hanno rovesciato governi o la mobilitazione strenua dei lavoratori greci, o l'ascesa in questi anni, a un livello diverso, dei movimenti di massa in Spagna o Portogallo.


E persino nei paesi imperialisti, dove ad oggi il quadro è nettamente negativo , e in alcuni paesi in peggioramento ulteriore come in Francia, la situazione sociale non è affatto stabilizzata. Perchè la crisi di consenso dei governi e delle politiche di austerità, riproduce anche lì le condizioni di possibili esplosioni sociali e brusche svolte.

L'ARRETRAMENTO DELLA COSCIENZA

No. Il punto centrale della crisi della classe operaia internazionale non sta nei suoi numeri, o nelle sue potenzialità.
Sta nell'arretratezza della coscienza. Sta nel fatto che di fronte alla più grande crisi capitalistica degli ultimi 80 anni, il livello di coscienza di classe e di organizzazione del movimento operaio mondiale è infinitamente più arretrato di quello con cui affrontò la grande crisi degli anni 20 e 30. 80 anni fa, la classe operaia internazionale contava nelle proprie fila decine di milioni di operai rivoluzionari. La loro coscienza politica ereditava la lunga scuola delle internazionali operaie, la memoria di più generazioni, il portato della rivoluzione russa. Oggi la coscienza dei salariati registra gli effetti cumulativi della distruzione progressiva di quel patrimonio. Della degenerazione e del crollo dell'Unione sovietica. Della distruzione di ogni organizzazione internazionale della classe per mano decisiva dello stalinismo. Di quello smantellamento progressivo persino di riferimenti e tradizioni classiste da parte delle burocrazie dirigenti che ha accompagnato l'arretramento sociale degli ultimi 20 anni, in particolare nei paesi imperialisti.

Ed è questo un dato che incide sulla lotta di classe. Non decide necessariamente il suo livello di radicalità. Decide della sua dinamica e dei suoi sbocchi. Lo può decidere sul terreno delle lotte economiche difensive di fronte alla pressione materiale della crisi dove amplia il varco al veleno sciovinista o xenofobo tra i salariati. Ma sicuramente lo decide nelle dinamiche di radicalizzazione dove il livello dello scontro alza la posta in gioco e pone le questioni politiche decisive. Lo abbiamo visto proprio nella grande ascesa delle rivoluzioni arabe: dove la mobilitazione operaia ha avuto un peso sociale importante e persino determinante nella cacciata di Ben Alì e di Mubarak, ma dove lo scarto tra la sua radicalità e l'arretratezza della coscienza ha non solo pregiudicato uno sbocco anticapitalista, ma perciò stesso ha posto le basi, per quanto ancora instabili, della controrivoluzione islamica o militare.

Contro tutti i teorizzatori dell'onnipotenza dei movimenti, non è il movimento, per quanto grande, che decide della propria vittoria. E' in ultima analisi la sua coscienza, quindi la sua direzione.

PER LA RIFONDAZIONE DELLA 4° INTERNAZIONALE

Per questo, ricostruire una partito internazionale che sviluppi la coscienza della classe operaia, che organizzi la sua avanguardia, che recuperi la sua memoria , è oggi più che mai la responsabilità dei rivoluzionari nel mondo.

Questa direzione non la possono certo costruire gli eredi di quelle forze che hanno distrutto l'internazionalismo proletario del primo 900. Non la possono costruire le socialdemocrazia di sinistra alla Syriza, già preoccupata di rassicurare l'Unione Europea sui caratteri di un proprio eventuale governo. Né la possono concepire i partiti stalinisti che dal Sudafrica al Cile sono a caccia di ministeri nei governi borghesi, in continuità con quella tradizione che ha annientato il movimento comunista nel secolo scorso. La rifondazione del partito internazionale della classe la possono intraprendere solo gli eredi della tradizione opposta: quella del marxismo rivoluzionario, del trotskismo. Quella che nell'esperienza drammatica del movimento operaio del 900 si è battuta a difesa del programma della rivoluzione d'Ottobre, contro la socialdemocrazia e lo stalinismo. La sua sconfitta nel secolo scorso non fu la sconfitta di una corrente. Fu la sconfitta dell'avanguardia proletaria internazionale e del suo programma. Per questo oggi il rilancio politico internazionale della classe operaia e della sua avanguardia è inseparabile dal recupero di quel programma.

Per questo il nostro terzo congresso pone l'esigenza di rilanciare la Rifondazione rapida della 4° Internazionale e dunque il CRQI quale strumento di tale progetto.

Le forze che si sono raccolte ad oggi, attorno al CRQI sono sicuramente molto modeste. Infinitamente modeste rispetto al compito che ci proponiamo. Ma proprio per questo sono un patrimonio irrinunciabile. Un patrimonio da investire innanzitutto nella lotta di classe di ogni paese in cui siamo presenti, come abbiamo fatto in questi anni in America Latina, in Grecia, in Turchia, in Italia, con un consolidamento delle nostre organizzazioni. Ma anche un patrimonio da investire nel rilancio di un'azione di raggruppamento internazionale che miri a unificare su basi di principio tutte le organizzazioni e tendenze che si battano realmente per la rivoluzione socialista e la Repubblica consiliare dei lavoratori. E che vogliono rompere sia con le tradizioni del revisionismo sia con quelle dell'autocentratura settaria.

E' in questo quadro che il nostro congresso saluta, nel modo più caloroso, il grande successo del Partito Obrero e della sinistra rivoluzionaria nelle elezioni di ottobre in Argentina.

Non è solo un fatto straordinario di quel paese. E' un fatto che parla agli operai d'avanguardia di tutto il mondo. Perchè il milione e mezzo di voti operai che il PO e il Frente de Izquierda hanno conquistato, non l'hanno conquistato con una semplice politica di antagonismo: l'hanno conquistato su un programma di rivoluzione e di governo dei lavoratori, su quel programma di “obreros al poder” che le sinistre riformiste e centriste di tutto il mondo ci spiegano ogni giorno essere solo un ricordo d'archivio. L'hanno conquistato attraverso un lungo lavoro di massa, controcorrente, che ha guadagnato posizioni nelle fabbriche e nei movimenti. L'hanno conquistato anche pagando, nelle lotte, il prezzo della vita di propri militanti, come il compagno Mariano Ferreyra, militante del PO, assassinato da squadristi peronisti che qui vogliamo ricordare come nostro compagno con un minuto di silenzio.



LA CRISI ITALIANA

E' nel quadro di questa prospettiva internazionale che poniamo la costruzione del nostro partito in Italia.

Mai come oggi la vicenda italiana è inseparabile dal contesto mondiale e dalla crisi europea. A partire dal peso materiale del capitalismo italiano in Europa.

Quelle tendenze che anche a sinistra dipingono l'Italia come una colonia tedesca, non solo si subordinano ad una suggestione sciovinista. Ma rimuovono la realtà. Perché l'Italia è un paese imperialista. E' la seconda manifattura d'Europa. E' la settima potenza capitalista del mondo. I governi italiani non sono i maggiordomi della Merkel. Sono i comitati d'affari dei capitalisti italiani.

Il grosso degli 85 miliardi di interessi annuali sul debito pubblico, pagati da lavoro, sanità, e pensioni, non va nei forzieri delle banche tedesche, come in Grecia. Va innanzitutto nei forzieri delle banche italiane.

Gli accordi presi dai governi italiani col capitale europeo in fatto di debito pubblico non rispettano solo gli impegni col concorrente alleato tedesco: chiedono anche l'impegno del capitale europeo e quindi tedesco a soccorrere le banche italiane. A spese dei proletari d'Europa ed anche dei proletari tedeschi.

Ed è proprio per questo che l'intera Unione Europea guarda col fiato sospeso la crisi del capitalismo italiano.
Una crisi che non ha paragone, tra i paesi imperialisti del vecchio continente, in fatto di debito pubblico e di depressione industriale. Ma anche una crisi politico istituzionale che non ha analogie tra i paesi imperialisti del mondo.


LA DECOMPOSIZIONE DELLA SECONDA REPUBBLICA

La seconda Repubblica, salutata 20 anni fa con squillar di trombe si va sfarinando.

Il vecchio bipolarismo è in dissoluzione, sullo sfondo di una profonda crisi di consenso delle politiche d'austerità e di un terzo polo populista.
I due schieramenti che si sono alternati per 20 anni per gestire le stesse politiche contro il lavoro sono in disgregazione.
I due partiti su cui si erano incardinati sono esposti, a loro volta, a processi di decomposizione o rifondazione.

Da un lato Il mondo berlusconiano si spacca dopo 20 anni, sotto il peso di quella storia privata del Cavaliere, da cui non si era mai emancipato.
Dall'altro l'ascesa di Renzi conquista un PD in cerca di autore, scompagina il suo vecchio apparato, inaugura un corso liberal populista al servizio dei settori rampanti della borghesia italiana. Quelli del successo del made in Italy nell'agroalimentare, nel design, nella moda, grazie a salari di 8 euro lordi l'ora o alla schiavitù di operai cinesi fantasma.

Il risultato è che lo stesso governo delle larghe intese è crollato. L'esecutivo Letta/ Alfano è oggi imprigionato nella tenaglia tra Berlusconi e le ambizioni di Renzi. Nelle contraddizioni esplosive di una maggioranza parlamentare assai più ridotta. E nel gorgo incontrollabile delle lobby, come s'è visto in questi giorni sulla legge di stabilità. Mentre il Lord Protettore del governo, Giorgio Napolitano , presidente del capitalismo italiano e dei sacrifici operai, vede indebolirsi giorno dopo giorno quel ruolo di dominus istituzionale che è stato in questi anni l'architrave di sistema.

Insomma, la borghesia italiana si trova a sferrare l'attacco sociale contro il lavoro più pesante dell'intero dopoguerra nel momento della sua massima crisi politica.


LA CRISI DEL MOVIMENTO OPERAIO

Ma proprio questo dato misura la crisi parallela del movimento operaio italiano.

Se la borghesia italiana regge, se anzi appesantisce la propria aggressione contro i lavoratori, non è certo per forza propria. E' per la crisi della classe operaia.

A differenza che in altri paesi dell'Europa mediterranea, a partire dalla Grecia, le politiche di austerità non hanno registrato in Italia una risposta ascendente della mobilitazione.
Le tante lotte di resistenza, anche importanti, che costellano questi anni di crisi, si sono poste dentro una dinamica di ripiegamento in ordine sparso. Nel settore privato, come nel settore pubblico.

Ma questo arretramento non è dovuto a un destino cinico. Chiama in causa le responsabilità decisive delle direzioni del movimento operaio. Delle sinistre politiche e sindacali.

Se la recessione capitalista del 2008/2009, a differenza che in alcuni altri paesi, non ha favorito una radicalizzazione sociale, è perché si è sovrapposta a una dinamica di lotta già discendente. Una dinamica sospinta in modo decisivo alla metà del passato decennio da un fattore preciso: la concertazione politica e sindacale col governo di Romano Prodi. Dal fatto che i gruppi dirigenti della sinistra italiana, senza eccezione, hanno scelto di vendere la stagione dei movimenti dei primi anni 2000 a un governo del capitale finanziario contro le ragioni di quei movimenti, dentro una maggioranza che andava inizialmente da Mastella a Turigliatto. Altro che “errori”. Il gruppo dirigente di Rifondazione comunista che col ministro Ferrero entrò in quel governo non ha solo votato le missioni di guerra e la più grande detassazione dei banchieri e dei capitalisti degli ultimi 20 anni. Né ha solo suicidato buona parte della sinistra politica. Ha consentito anche che la grande crisi capitalista del 2008 si abbattesse su una classe operaia in ritirata, disorientata, disillusa, privata di un riferimento riconoscibile di opposizione, e per questo tanto più esposta alla pressione lacerante della crisi.

LA RESPONSABILITA' DELLA BUROCRAZIA CGIL

In questo quadro la burocrazia dirigente della CGIL- allora e negli anni seguenti- si è assunta una responsabilità decisiva: direttamente proporzionale al suo ruolo di unica direzione di massa del movimento operaio italiano.
E' falso dire che la CGIL ha difeso poco e male i lavoratori di fronte alla crisi. E' vero che di fronte alla più grave aggressione contro il lavoro, la CGIL ha continuato a negoziare il programma dell'avversario, sul terreno dell'avversario, contro il lavoro. Come nei 30 anni precedenti, ma a fronte di una crisi sociale assai più profonda e quindi con effetti ancor più devastanti.

In questi anni di crisi, la burocrazia CGIL – da Epifani a Camusso- ha avuto una sola bussola: la riconquista di un quadro stabile di collaborazione col padronato, e di un governo di centrosinistra che fosse garanzia di quella collaborazione. Da qui tutta la sua condotta. Prima un'opposizione controllata a Berlusconi. Poi un lasciapassare alla macelleria di Monti pur di coprire la segreteria Bersani. Poi la resa all'imprevisto governo Letta, e la riconquista del sospirato accordo con Confindustria sul terreno peggiore: il divieto di sciopero contro contratti capestro e un patto programmatico col padronato attorno alle richieste del padronato ; a partire dalla riedizione di quella truffa sul cuneo fiscale che già con Prodi regalò ai padroni 5 miliardi l'anno, col sostegno di Rifondazione e della CGIL.

Questa linea generale della burocrazia richiama non solo una responsabilità sindacale, ma una responsabilità politica. Nel momento stesso della precipitazione della crisi istituzionale della Seconda Repubblica, l'apparato della CGIL si fa garante di sistema, quale argine sociale della crisi politica. Quando i massimi dirigenti CGIL fanno presente alla borghesia che grazie alla loro responsabilità non vi sono stati in Italia i disordini sociali della Grecia vantano esattamente questo ruolo: quello di agenzia della borghesia tra i lavoratori. Di polizza salvavita del capitale.


FALLIMENTO E INVOLUZIONE DELLA LINEA FIOM

Qui sta anche il fallimento clamoroso del gruppo dirigente della FIOM nella costruzione di una alternativa.

Tre anni fa al nostro secondo congresso, quando tutta la sinistra cosiddetta radicale- nella FIOM e fuori dalla FIOM- esaltava la linea dirigente di questo sindacato, affermavamo, controcorrente, che una linea di puro contrasto, in ordine sparso, dell'aggressione capitalista, avrebbe portato a una sconfitta dei lavoratori e della FIOM. Sono passati tre anni e il bilancio è nelle cose.
Aver accettato il quadro di frammentazione dello scontro, stabilimento per stabilimento; aver rinunciato ad una risposta radicale all'aggressione padronale quando ve ne erano le condizioni a partire dalla mancata occupazione degli stabilimenti FIAT di Termini Imerese nel 2009; ha disarmato di fatto la resistenza del movimento operaio e incoraggiato la linea di sfondamento del padronato. La sconfitta della FIOM alla FIAT è l'immagine plastica della sconfitta generale di una linea.

E non solo. Quella sconfitta sociale ha trascinato con sé, inevitabilmente, lo stesso arretramento della collocazione sindacale della FIOM. In mezzo al guado non si poteva restare: o si risolveva in avanti il proprio dissenso sul terreno di una svolta radicale di linea. O si sarebbe tornati ai vecchi lidi cercando riparo nella protezione della burocrazia CGIL, con un pò di contenzioso sugli equilibri di apparato. E' quanto è avvenuto. Il ritorno di Landini in maggioranza CGIL in occasione del suo Congresso, misura una capitolazione. Aver sancito questa capitolazione intestandosi come “vittoria” quella esigibilità dei contratti richiesta in primo luogo dalla FIAT misura il prezzo della sconfitta anche in termini di verità nel rapporto con i lavoratori. Combinare oggi tutto questo con l'apertura di credito a Matteo Renzi, ed anzi candidarsi a interlocutore sindacale del renzismo, scavalcando persino Susanna Camusso, completa il quadro d'insieme. Non è una politica sbagliata. E' la logica di una burocrazia, fosse pure di sinistra.

DINAMICA SOCIALE E ASCESA POPULISTA

Questa politica complessiva delle sinistre non ha solo spianato la strada all'avanzata padronale nei luoghi di lavoro e nelle fabbriche. Ha anche prodotto effetti più generali. L' arretramento operaio ha trascinato all'indietro tutti i movimenti di massa, a partire dalla scuola. Ha isolato o indebolito movimenti democratici e socialmente progressivi, come sull'acqua e i No TAV. Ha favorito la ricomposizione di movimenti popolari a egemonia reazionaria, come i Forconi , dove organizzazioni padronali delle classi medie costruiscono la propria egemonia su settori di piccola borghesia e di popolo colpiti dalla crisi sotto la bandiera equivoca della “rivolta fiscale”. Offrendo oltretutto uno spazio di inserimento a organizzazioni apertamente fasciste come è avvenuto nel movimento del 9 Dicembre.

Ma il risvolto peggiore dell'arretramento di classe riguarda la coscienza politica delle masse. L'irruzione del populismo nell'immaginario collettivo di ampi settori proletari ha qui la sua radice. Venti anni fa, al crepuscolo della Prima Repubblica, prima l'autunno dei bulloni, poi il grande sciopero generale contro il primo Berlusconi registravano un ciclo di lotte capace di contenere, nonostante tutto, l'avanzata del leghismo. Oggi il crollo suicida della sinistra politica e l'onda lunga delle sconfitte sociali, hanno spalancato un varco enorme al populismo reazionario tra le stesse fila dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati. Una grande massa di sfruttati, socialmente disperata e sfiduciata, cerca risposta negli'”uomini nuovi” e nelle loro affabulazioni demagogiche. La denuncia della “Casta”, della “Politica”, dei “Partiti” è diventata una bandiera del senso comune, al di là di ogni confine di classe. Il fatto che un sindaco populista confindustriale, tifoso di Fornero, abbia sfondato nel vecchio popolo della sinistra, o che un comico milionario sia diventato un raccoglitore di voto operaio e il primo riferimento dei disoccupati, misura l'arretramento della coscienza di massa.


LA MINACCIA REAZIONARIA. IL GRILLISMO

In questo varco si ampliano gli spazi per una minaccia reazionaria. E' una minaccia ancora priva di ogni organicità. Non segnala allarmi imminenti. Ma certo accumula sintomi inquietanti. Passa per il salto di pratiche repressive e teoremi giudiziari contro specifici settori d'avanguardia. Per lo sdoganamento del presidenzialismo gaullista. Passa oggi innanzitutto per il Movimento a 5 Stelle: il più grande movimento populista che sia affacciato nell'Italia del dopoguerra.

E' impressionante la miopia politica che regna a sinistra sul Grillismo. Le stesse sinistre che gli hanno aperto la strada con la propria subordinazione al capitale, hanno fatto a gara nel salutare la cosiddetta “positiva novità” di questo fenomeno. In forme diverse nessuna sinistra è mancata all'appello. Il risultato è stato uno solo: quello di legittimare come possibile alleato dei lavoratori un movimento reazionario nemico dei lavoratori. Perché il movimento a 5 Stelle è un moderno movimento reazionario di massa. Le mille contraddizioni che lo attraversano non riescono a mascherare, per chiunque voglia vedere, la natura reale del suo progetto. Che non è solo l'attacco frontale alle pensioni, al posto di lavoro di dipendenti pubblici e privati, per liberare fior di miliardi da regalare ai padroni. Né è solo un odioso programma Xenofobo. E' un programma di conquista del potere, di costruzione di una Repubblica plebiscitaria sotto il controllo disciplinare della Rete. Una Repubblica senza partiti, senza sindacato, senza organizzazioni di massa, senza diritti democratici se non quello di approvare in solitudine col click di una tastiera editti e sentenze di Grillo e Casaleggio, di un Profeta e di un Califfo. “Uno vale uno” è solo la filosofia del potere di due ( “uno più uno”) sullo sfondo della delegittimazione di ogni organizzazione collettiva democratica. Cos'è in fondo il regime dispotico interno ai 5 Stelle se non l'esatta prefigurazione del regime politico per cui la sua leaderschip si batte?

LA NOSTRA PROPOSTA ALTERNATIVA



E' dunque l'esperienza concreta della lotta di classe in questi tempi di crisi a confermare una volta di più , anche in Italia,l'attualità del bivio: o il movimento operaio dà la propria soluzione radicale alla crisi sociale, politica, istituzionale della Seconda Repubblica, o la profondità di quella crisi si rovescerà prima o poi contro il movimento operaio non solo in termini sociali ma anche politici.

Qui sta la proposta generale di svolta che avanziamo al movimento operaio e a tutte le sinistre politiche e sindacali: una svolta unitaria e radicale, di azione e di prospettiva.


PER IL FRONTE UNICO DI CLASSE

E' innanzitutto la nostra una proposta di unità di classe.
Unità di classe significa contrapporre al fronte comune degli industriali e dei banchieri, dei loro partiti e dei loro governi, il fronte comune del movimento operaio, dei movimenti di lotta, di tutte le forze che fanno ad essi riferimento. Questa linea e proposta di fronte unico non ha niente a che vedere con pasticci politici, confusioni di programmi, soluzioni anfibie tra movimenti e partiti. La sfida unitaria del fronte unico- nella migliore tradizione leninista- si pone sul terreno dell'azione comune nella lotta di classe. Contro ogni subordinazione dell'interesse generale del movimento e del suo sviluppo, alla piccola logica di autoconservazione, frammentazione, veti reciproci, primogeniture, tanto frequenti nella prassi delle sinistre politiche e sindacali e che tanti danni hanno provocato. Per essere chiari: il PCL non ha altro riferimento che l'interesse generale del movimento operaio e l'avanzata della sua lotta, che tanto più oggi richiede l'unità di classe. Per questo possiamo dire che il nostro partito, in quanto comunista, è per molti aspetti il soggetto più unitario della sinistra italiana.

Ma proprio l'interesse generale del movimento operaio chiama tutte le sinistre al dovere della chiarezza.


LA ROTTURA COL PD

Innanzitutto sul terreno dell'autonomia dall'avversario.
Non c'è possibilità reale di ripresa e sviluppo del movimento operaio, dei movimenti di lotta, della loro coscienza, senza una piena rottura con la borghesia, i suoi partiti, i suoi governi.

Non si può stare coi piedi in tante scarpe.

Alla CGIL, che sta per celebrare il proprio congresso, diciamo che non ha alcuna credibilità chi ogni giorno recita il rosario delle sofferenze dei lavoratori e al tempo stesso si accorda con Confindustria contro i lavoratori; critica il governo ma lascia fare il governo; rivendica autonomia ma copre il PD. La principale organizzazione di massa del movimento operaio ha il dovere di rompere con i suoi avversari. Per questo contro la burocrazia dirigente della CGIL, contro la copertura che Landini le offre, contro l'apertura a Renzi del gruppo dirigente FIOM, sosteniamo la battaglia classista dell'opposizione interna che abbiamo contribuito a costruire. Impegnando innanzitutto tutti i nostri compagni che sono oggi in CGIL su questo fronte di lotta. Ponendo la centralità della battaglia in CGIL- assieme al lavoro nei sindacati di base- come la centralità della battaglia di massa contro la burocrazia sindacale per l'indipendenza del movimento operaio dai padroni e dai loro agenti.

E la stessa necessità dell'indipendenza di classe si pone sul piano politico.

A Sinistra e Libertà, anch'essa alla vigilia del proprio congresso, diciamo con franchezza che è finito il tempo delle capriole letterarie. Quello per cui si chiedono i voti contro Monti, ma ci si accorda col PD che l'ha sostenuto. Si denuncia un anno fa Matteo Renzi come nuovo Berlusconi, e ora lo si saluta come “speranza” della sinistra. Si rivendica in piazza con parole commosse salute e lavoro degli operai dell'Ilva, ma si rassicura al telefono il loro padrone sul fatto che “il governatore è a sua disposizione”.
La verità, caro Nichi Vendola, è che questa politica del doppio binario tra poesia e prosa, non regge più.
Il congresso di SEL è chiamato a decidere, non da noi ma dai fatti: se stare tra i lavoratori per conto dei capitalisti o se rompere coi capitalisti dalla parte dei lavoratori. Se “porsi a disposizione di Renzi” come già di Riva in cambio di futuri possibili ministeri, o se porsi a disposizione dell'opposizione di classe contro il governo, contro il PD, contro Renzi.


UNA SVOLTA DI LOTTA

Ma il rilancio dell'opposizione di classe non richiede solamente l'autonomia dall'avversario, che pur ne è condizione. Richiede più che mai una svolta unitaria e radicale sul terreno delle forme di lotta, che si ponga all'altezza di un livello di scontro storicamente nuovo in tutta l'esperienza del dopoguerra.

La resistenza sociale frammentata azienda per azienda, settore per settore, trincea per trincea, si è rivelata incapace di ribaltare un rapporto di forza complessivo. Ed è anzi esposta, in ogni luogo di lavoro, al peso generale di un rapporto di forza impari e alle dinamiche di disgregazione tra i lavoratori. Qui sta allora la proposta di una grande vertenza generale del mondo del lavoro, dei precari, dei disoccupati: significa uscire dal chiuso delle trincee aziendali, costruire una piattaforma unitaria di svolta definita da una grande assemblea nazionale di delegati eletti nei luoghi di lavoro; unificare le forze in un movimento generale, capace di affrontare in campo aperto le classi dominanti. Solo la forza concentrata di milioni di salariati, in una lotta frontale prolungata, può dare prospettiva a mille lotte particolari; polarizzare attorno alla classe operaia le ragioni di tutti gli sfruttati; ribaltare i rapporti di forza e strappare risultati.

E' un caso se gli unici risultati parziali in questi anni di crisi in Europa sono stati strappati sul terreno dello scontro generale e radicale ? E' accaduto nella Francia del 2005 con la ritirata di Villepin sulla precarizzazione del lavoro. O in Romania nel 2012, col ritiro del piano di privatizzazione della sanità . Ogni volta non la forza della legge ma solo la legge della forza ha aperto varchi, per quanto provvisori, per gli sfruttati.

E così è stato in tutte le stagioni di crisi del 900. Nell'America degli anni 30 col movimento di occupazione di numerose fabbriche, come nello sciopero generale prolungato della Francia del 36. Ogni volta le classi dominanti hanno concesso qualcosa solo quando hanno avuto paura di perdere tutto. Si tratta di recuperare questa memoria storica.

Del resto, su scala diversa, nella stessa esperienza italiana di questi anni di arretramento, dove e quando sono stati strappati risultati, fosse pure precari? Alla FIAT Melfi nel 2005, con uno sciopero a oltranza di 21 giorni e blocco dei cancelli. E più recentemente nella logistica con la splendida lotta di migliaia di lavoratori migranti , grazie all'azione prolungata, ai picchetti duri, al blocco delle merci, al coordinamento unitario delle lotte di settore per merito del Si Cobas. Una lotta limitata ma ricca di un significato generale. Se persino un piccolo settore super sfruttato della classe riesce a incidere con una lotta radicale , cosa potrebbe avvenire se fossero 16 milioni di lavoratori italiani a mettere in campo la propria forza ? Questa è del resto l'unica vera paura della borghesia italiana. Ce lo dice la piccola grande lotta dei tranvieri di Genova. Se un mese fa le cinque giornate di Genova hanno fatto gridare la stampa nazionale al “rischio della rivolta”, non è stato casuale. E' stato per la paura di un effetto contagio. Per la paura che milioni di lavoratori, e non solo del trasporto locale, potessero seguire quell'esempio. Per questo quella lotta è stata venduta dalle burocrazie sindacali, con la copertura delle sinistre politiche. Per questo il PCL ci ha messo la faccia valorizzando ovunque il suo esempio. Con la stessa logica con cui agiamo e agiremo in ogni lotta per contribuire alla sua generalizzazione.


UN PROGRAMMA ANTICAPITALISTA

Una svolta di lotta generale richiede a sua volta un programma generale. A sette anni dall'inizio della grande crisi capitalista, il movimento operaio italiano ( e non solo) non ha un suo programma per fronteggiarla. La CGIL negozia il programma del padronato. Le sinistre cosiddette “radicali” , mentre coprono la CGIL, evocano il programma del liberale Roosvelt. Altri rivendicano una alleanza del capitalismo italiano con i capitalismi mediterranei per fare moneta comune, o invocano il ritorno alla Lira.

Il risultato non è solamente la riproposizione di un cumulo di vecchie suggestioni riformiste o populiste. E' la subordinazione di fatto al capitalismo italiano, proprio nel momento del suo fallimento.

Noi crediamo, all'opposto, che non vi sia prospettiva per il movimento operaio fuori da una prospettiva di rottura con proprietà e poteri della borghesia italiana: a partire da quella consorteria di grandi famiglie capitaliste che concentra nelle proprie mani tutte le leve dell'economia. Da Agnelli a Berlusconi, da De Benedetti a Ligresti, da Merloni a Riva, da Bazoli a Della Valle. Non c'è nessuna borghesia buona tra le loro fila. Non c'è nessuna borghesia “produttiva” come vorrebbero i cantori di un capitalismo illuminato all'Olivetti, (salvo scoprire che all'Olivetti si moriva di cancro come all'Ilva) . C'è solo una classe parassitaria, che per decenni ha preso soldi pubblici e ha staccato cedole per poi scaricare la propria crisi sui lavoratori, a spese dei lavoratori.

Non c'è via d'uscita dalla crisi senza liberare la società italiana da questa classe. Senza porre al centro di un programma generale del movimento operaio non il costo del lavoro per il capitale, ma il costo del capitale per il lavoro. Questa è l'unica vera “lotta allo spreco” che abbia un carattere progressivo.

Da qui l'esigenza di un piano operaio che affronti l'emergenza della crisi dal punto di vista del lavoro.

Blocco immediato dei licenziamenti. Questa è la prima necessità. Ma si può imporlo solo nel quadro di una lotta di massa radicale che rivendichi la nazionalizzazione, senza indennizzo e sotto controllo operaio, di tutte le aziende che licenziano e attaccano i diritti sindacali. Questa sola misura significherebbe un risparmio di risorse pubbliche per decine di miliardi: quelle che ogni governo gira ai capitalisti ogni anno.

La seconda esigenza è la ripartizione del lavoro.
E' possibile solo con la riduzione progressiva dell'orario a parità di paga, a partire dalla rivendicazione di 30 ore settimanali, nella migliore tradizione del movimento operaio internazionale. E vorrei dire con chiarezza che chi a sinistra nel nome del “realismo” contrappone alla riduzione dell'orario il reddito di cittadinanza, non solo finisce di fatto per contrapporre i disoccupati agli operai. Ma si rassegna alle compatibilità del capitale: che da un lato distrugge lavoro anche allungando l'orario di chi lavora; dall'altro taglia ammortizzatori e protezioni per chi perde il lavoro o non ce l'ha. Rivendicare insieme ripartizione del lavoro e un vero salario ai disoccupati è l'unico modo di ricomporre l'unità di classe contro il capitale e le sue leggi.

La terza esigenza è creare nuovo lavoro.
Milioni e milioni di giovani e di donne, di disoccupati, di lavoratori italiani e migranti non solo hanno diritto al lavoro vero, liberato da quelle leggi di precarizzazione varate da tutti i governi, a partire da Prodi. Ma la società ha bisogno del loro lavoro: per bonificare le mille terre dei fuochi, riconvertire produzioni, ricostruire un sistema ferroviario, varare un piano di edilizia popolare e scolastica, di sicurezza antisismica, di asili nido...
Si dirà che un piano di opere sociali lo chiedono formalmente un po' tutti a sinistra, dalla CGIL a Rifondazione. Ma il punto è che ogni serio piano del lavoro è incompatibile col capitale. Richiede non solo una patrimoniale progressiva, ordinaria e straordinaria, che colpisca innanzitutto le grandi ricchezze di quel 10% della società che concentra nelle proprie mani 5000 miliardi . Ma richiede l'abolizione della gigantesca montagna di debito pubblico verso le banche.

La soppressione di questo debito è inaggirabile. La pretesa di “negoziarlo” con gli strozzini italiani o europei, o l'idea fantasiosa di un audit col quale un tribunale immaginario della giustizia separa il debito illegittimo da quello legittimo significa cercare di conciliare l'inconciliabile . Senza l'abolizione di quel debito non si finanzia né il lavoro, né la tutela di pensioni, sanità, istruzione. E l'abolizione di quel debito è inseparabile dalla nazionalizzazione delle banche, senza indennizzo per i grandi azionisti, e dalla loro unificazione in un unica banca pubblica. Capace di liberare dal cappio usuraio milioni di famiglie proletarie; di far credito a buon mercato a milioni di artigiani e piccoli commercianti in rovina; di stroncare alla radice quella gigantesca evasione fiscale del grande capitale che passa per i canali delle banche.

A chi ci dice che un simile programma sarebbe fatalmente “minoritario” nella società italiana, rispondiamo che è vero l'opposto. Se il movimento operaio unisse le proprie forze su un programma di lotta anticapitalista contro la crisi in contrapposizione alle classi dominanti, potrebbe polarizzare attorno a sé la maggioranza della società, prendere la testa di tutte le insoddisfazioni sociali, tagliare l'erba sotto i piedi del populismo e dei forconi.


PER UN GOVERNO DEI LAVORATORI

Il punto vero è un altro. Questo programma resta un esercizio letterario senza una lotta della classe operaia per il potere politico. Senza una prospettiva di governo dei lavoratori, basato sulla loro organizzazione e sulla loro forza.

Questo è il punto decisivo. E' il punto fondativo del marxismo. Ma soprattutto è un principio elementare di realtà. Quale altro governo se non un governo dei lavoratori potrebbe mai espropriare la Fiat e padron Riva , ridurre l'orario, abolire il debito verso le banche ed espropriare le banche? Quale altro governo se non un governo dei lavoratori potrebbe requisire le grandi proprietà ecclesiastiche, abbattere le spese militari, mettere i 40 miliardi necessari per il solo riassetto idrogeologico del territorio? Quale altro governo se non un governo dei lavoratori potrebbe mai dare il permesso di soggiorno ai migranti o liberarli dalla schiavitù della segregazione di autentici lager, varati nel 97 dal ministro Napolitano col voto di Rifondazione? E così quale altro governo potrebbe rompere con lo Stato sionista d'Israele, e schierarsi per la piena autodeterminazione dei palestinesi? Sono domande semplici, che rivolgiamo a tutte le sinistre radicali, critiche o antagoniste, vecchie o nuove, con cui pure conduciamo tante battaglie comuni. Rimuovere come fate la prospettiva stessa di un governo dei lavoratori, significa non solo rinunciare magari in nome del “realismo” all'unica possibile alternativa reale. Significa ridurre le vostre stesse rivendicazioni a slogan senza futuro, a mezzo di conservazione di uno spazio politico, fosse pure antagonista, dentro la società borghese, più che a rovesciare la società borghese. E viceversa: la lotta per un governo dei lavoratori è l'unica che può dare prospettiva alle mille lotte di resistenza sociale e opposizione, in cui spesso insieme siamo impegnati.


PER UNA REPUBBLICA DEI LAVORATORI

Governo dei lavoratori significa un'altra Repubblica.

Il PCL non limita la battaglia per le rivendicazioni democratiche entro i confini di questa falsa democrazia.

Certo lavoriamo per la difesa di tutti i diritti democratici. Ed anzi ci battiamo per ampliare o recuperare questi diritti rivendicando una legge elettorale pienamente proporzionale, la difesa e il ripristino delle libertà sindacali, la difesa dei diritti e delle libertà delle donne, degli omosessuali, e di tutti gli oppressi. E anche per questo, a differenza delle sinistre riformiste, non ci inchiniamo a Papa Francesco e alla furbizia peronista, ma denunciamo in quella operazione d'immagine un populismo ecclesiastico complementare al populismo politico borghese: che mira sia a riverniciare la realtà del capitalismo ecclesiastico sia a ricostruire una base di consenso alla società borghese . Noi consideriamo attualissime le parole di Gramsci del 1924 quando diceva: “ La Chiesa è la più grande istituzione reazionaria d'Italia”.

Ma detto questo, non ci limitiamo a difendere i diritti degli oppressi dentro l'attuale democrazia dei padroni. Rivendichiamo una democrazia dei lavoratori e delle lavoratrici.

A differenza di Landini, Vendola, Ferrero, non crediamo alla fiaba di una Repubblica borghese “fondata sul lavoro”. Non siamo sacerdoti della Costituzione italiana del 48. Quella Costituzione non è nata dalla Resistenza partigiana ma dal suo tradimento. E' nata da quel compromesso tra De Gasperi e Togliatti che restituì l'Italia ai capitalisti cambiando spalla al fucile: e che per questo disarmò i partigiani, amnistiò i fascisti, restaurò i prefetti, conservò il Concordato. La nostra Costituzione è un altra: è la Costituzione della rivoluzione russa. Quella che espropriò i capitalisti; quella che diede il potere agli operai e ai loro organismi di massa, con deputati eletti nei luoghi di lavoro, senza privilegi, e revocabili; quella che proprio per questo realizzò una democrazia sconosciuta alla più democratica delle repubbliche borghesi: per esempio abolendo ogni distinzione tra cittadino russo e straniero; dando il diritto gratuito al divorzio e all'aborto; avviando la liberazione dalla schiavitù domestica di decine di milioni di donne grazie ad un investimento enorme in servizi sociali, mense, asili.

Cosa ci dice quella Costituzione e la rivoluzione che l'ha prodotta? Ci dice una verità profonda: che solo il rovesciamento della dittatura dei capitalisti, solo la dittatura del proletariato, può realizzare sino in fondo le stesse rivendicazioni democratiche. Come già scriveva Blanqui “ non c'è diritto senza potere”.


LA COSTRUZIONE DEL PARTITO RIVOLUZIONARIO

Ma la prospettiva della Repubblica dei Lavoratori ci riporta al senso stesso di un partito rivoluzionario e della costruzione del nostro partito.

Certo: lo scarto tra la necessità oggettiva di quella prospettiva e la coscienza soggettiva delle grandi masse, ed anche della loro stessa avanguardia non è mai stata tanto grande.

Eppure è proprio questo scarto a fondare tanto più oggi la ragione di un partito rivoluzionario. Parliamoci chiaro. Non c' è ragione di un partito rivoluzionario se l'orizzonte è quello di una sinistra critica dell'ordine esistente, magari classista ma senza progetto di rivoluzione.
C'è invece la necessità di un partito rivoluzionario, se il programma è la Repubblica dei lavoratori. Perchè solo un partito rivoluzionario può lavorare a ricomporre la frattura tra rivoluzione e coscienza; portare in ogni lotta le ragioni di un'alternativa di potere; organizzare e unificare attorno a questo programma i settori più combattivi della classe; può- ed è importante- saldare il radicamento nell'avanguardia con l'azione di conquista della maggioranza della classe e degli oppressi, fuori da ogni logica di nicchia: perché la conquista della maggioranza della classe è la condizione stessa di un governo dei lavoratori. Senza il metodo e la prospettiva della conquista della maggioranza, come diceva Lenin, non c'è prospettiva di rivoluzione, ma la rassegnazione alla declamazione.

L'UNICITA' DEL PCL

Oggi, in Italia, c'è un solo partito che combina insieme programma di rivoluzione, politica rivoluzionaria di massa, e ,aggiungo, natura democratica della propria organizzazione: si chiama Partito Comunista dei Lavoratori.

Non c'è in questa affermazione un solo grammo di propaganda. C'è la constatazione, a me pare, di una realtà obiettiva: la crisi profonda della sinistra italiana non ha liberato ad oggi altre organizzazioni o tendenze politiche basate su un programma comunista rivoluzionario o in evoluzione reale verso di esso. Se domani si produrranno - com'è possibile, come è augurabile, e come dovremo cercare di favorire con la nostra battaglia intransigente- proporremo loro l'unificazione in uno stesso partito, come crediamo sarebbe auspicabile per il FIT argentino. Ma oggi non vi sono i soggetti di un FIT italiano. Gli unici gruppi - di modestissima consistenza- che evocano un programma rivoluzionario assimilabile al programma del FIT, o lo negano nella pratica, o lo congelano in una setta, in contrapposizione cristallizzata al PCL. E' la realtà: non la possiamo rimuovere col desiderio.

Al tempo stesso la constatazione di questa realtà non genera in noi alcun autocompiacimento rassicurante. Al contrario : genera la preoccupazione di una responsabilità, e della sproporzione tra quella responsabilità e le nostre piccole forze.

Siamo ancora un partito molto piccolo. Siamo nati controcorrente in un contesto di ripiegamento del movimento operaio, di arretramento della coscienza politica di larghi settori della sua stessa avanguardia, in un processo di crisi e deriva della vecchia sinistra politica, che ha disperso e demotivato energie enormi, di cui abbiamo raccolto e salvato una parte molto modesta, più modesta di quella che inizialmente avevamo sperato. Non abbiamo alcun imbarazzo a riconoscerlo.

Ma l'altra faccia della verità è che il PCL c'è, e si è consolidato. In questi anni difficili, altri soggetti a sinistra sono stati travolti dalla propria politica. SEL ha visto sgonfiare la bolla mediatica del proprio leader. Rifondazione ha bruciato in poco tempo un capitale enorme. Sinistra Critica si è dissolta nella scissione sotto il peso di contraddizioni irrisolte che l'esperienza di Rossa, ancora molto incerta, può riproporre in misura amplificata.

Il PCL ha retto. E non era scontato. E se abbiamo retto non è solo per uno sforzo di volontà. E' anche, in ultima analisi, in ragione del nostro programma di rivoluzione, e quindi della politica che gli corrisponde: quella della massima intransigenza sui principi e al tempo stesso della massima proiezione verso le masse .

E' questa politica che ha sospinto il nostro intervento nelle lotte di resistenza sociale, alla FIAT, all'Irisbus, all'Alcoa, all'Indesit, oppure nelle scuole e nelle università', in una logica rivoluzionaria, non semplicemente classista.

E' questa politica che ci conduce a sviluppare una proposta di egemonia di classe anticapitalista su ogni domanda di liberazione a partire dalla liberazione delle donne, come sul terreno dell'ecologia e dell'animalismo, contro ogni economicismo ma a difesa del marxismo.

E' questa politica che ha orientato e orienta la nostra battaglia nella CGIL e in ogni sindacato classista, fuori da una pura logica tradunionista: nella consapevolezza che siamo militanti comunisti che fanno battaglia nel sindacato, non sindacalisti con la tessera comunista. E che dunque è la conquista delle masse sindacalizzate alla rivoluzione la bussola delle nostre scelte sindacali.

Ed è ancora questa politica che ha sospinto la nostra partecipazione autonoma ovunque possibile, alle elezioni di ogni ordine e grado e ogni applicazione tattica del metodo leninista su questo terreno: non una logica elettoralista ma, all'opposto, la presentazione di un programma rivoluzionario alle masse più larghe. Per toccare un punto sensibile della nostra libera discussione interna, è la logica che ci ha condotto ad essere i soli a sinistra a contrapporsi a Pisapia al primo turno delle elezioni di Milano, e al tempo stesso a ricercare un rapporto con le masse che lo sostenevano contro Moratti e Berlusconi al secondo turno: nel primo passaggio come nel secondo, contrapponendo sempre il nostro programma al programma borghese del centrosinistra, denunciando la sua ipocrisia, combattendo ogni illusione, prevedendo pubblicamente ciò che avrebbe fatto, sfidando tutti alla verifica della realtà. Non abbiamo inventato nulla. Abbiamo applicato quel metodo di Lenin che combina i principi e la tattica. Si può discutere com'è ovvio di ogni singola traduzione di quel metodo, a Milano come a Roma come ovunque. Ma cancellare quel metodo sarebbe io credo molto negativo. Perché è esattamente quel patrimonio leninista, nell'insieme della sua articolazione, a distinguere il PCL da tutte le altre sinistre. E ad aver sorretto in questi anni la nostra riconoscibilità di piccolo partito, che è altra cosa di un piccolo gruppo.

LA LOTTA CONTRO I NOSTRI LIMITI. RADICAMENTO E FORMAZIONE

Ma al tempo stesso proprio perché siamo rivoluzionari non siamo affatto soddisfatti di noi. Certo, abbiamo conservato e per alcuni aspetti rafforzato la nostra presenza. Ma il nostro scopo non è conservarci, è costruirci come partito della rivoluzione, in funzione delle necessità del movimento operaio . Per questo, come tutti i partiti rivoluzionari, viviamo nella lotta incessante contro i nostri limiti, politici e organizzativi. Ogni partito rivoluzionario di ieri e di oggi si è costruito in un certo senso contro se stesso. E questo è tanto più inevitabile per un piccolo partito come il nostro. E per questo abbiamo investito un'attenzione centrale di questo terzo congresso nel riconoscimento delle nostre difficoltà e nel loro fronteggiamento.

Con due priorità di fondo, tra le tante che discuteremo.

La prima è un lavoro razionalizzato, su scala nazionale e locale, per lo sviluppo del radicamento sociale del nostro partito.
E' un lato insufficiente della nostra costruzione. Siamo l'organizzazione più consistente a sinistra del PRC, l'unica dotata di una reale presenza nazionale. Ma, nonostante i progressi, non abbiamo ancora un ruolo nelle fabbriche e nei movimenti, che corrisponda a questa nostra realtà. Per questo dedicheremo un attenzione concentrata e metodica sulla selezione delle priorità d'intervento, a partire dai luoghi di lavoro e dalle fabbriche, e sull'inserimento attivo di tutti i nostri militanti nelle organizzazioni di massa e di movimento. In questo quadro generale abbiamo scelto in questi mesi di avviare una riflessione specifica sull'intervento rivoluzionario del nostro partito tra i giovani e le donne. Che non sono due settori di lavoro tra gli altri: ma soggetti decisivi di un blocco sociale anticapitalista e terreni fondamentali di costruzione e radicamento di ogni organizzazione rivoluzionaria.

La seconda priorità è la formazione dei nostri militanti. Non c'è partito rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria, scriveva Lenin. Formazioni movimentiste possono ignorare l'importanza della teoria marxista, salvo poi ripescare vecchie teorie antimarxiste o presentarle come nuove. Un partito che lavora a costruire una nuova direzione del movimento operaio e dei movimenti di massa ha invece bisogno della formazione teorica e politica. Ha bisogno di costruire un'ossatura non solo di militanti ma di quadri, con una comprensione complessiva della politica rivoluzionaria e della storia del movimento operaio , e dunque in grado di attualizzare nella battaglia politica e di massa l'enorme bagaglio di quella storia.
Abbiamo un ritardo, nonostante i progressi, su questo terreno. Per questo a partire dal terzo congresso vogliamo segnare l'inizio di investimento metodico su scala nazionale nella formazione, che superi elementi di improvvisazione o la dimensione di sperimentazioni locali per quanto importanti.


LA COSTRUZIONE PER SALTI

Questo lavoro di cura che riserviamo a noi stessi è un investimento decisivo sulla nostra prospettiva, nell'intreccio con la dinamica della lotta di classe.

La costruzione del nostro partito, come di ogni partito rivoluzionario, non procede indipendentemente dalle condizioni oggettive in cui ci muoviamo. In questa fase di crisi del movimento operaio e di dispersione della sua stessa avanguardia, difficilmente si pongono le condizioni immediate di un salto concentrato delle nostre forze. Al tempo stesso la situazione oggettiva non è affatto immobile. Non lo è sul versante della crisi della sinistra. Non lo è sul versante della straordinaria crisi sociale,politica, istituzionale dell'Italia, esposta alla possibilità di brusche svolte: dove un eventuale ripresa di lotta del movimento operaio sommandosi a una crisi politico istituzionale senza paragoni in Europa, potrebbe anche giungere a innescare una situazione pre rivoluzionaria. Tutto è improbabile e tutto è possibile, dentro la grande instabilità nazionale ed europea.

Ma il nostro partito potrà candidarsi a svolgere un ruolo reale in una brusca svolta, potrà incorporarla nel proprio sviluppo ad una condizione: quella di essere stato capace oggi, nella fase più sfavorevole, di allargare il proprio radicamento, di accumulare esperienze di massa, di curare la propria organizzazione, di formare i propri quadri. Svolgere questo lavoro nella quotidianità della nostra esperienza è la cosa più difficile, ma è anche quella più importante. Non solo non è tempo perso, ma è l'investimento migliore nei tempi che verranno. In fondo la pazienza è una virtù rivoluzionaria non meno del coraggio. Ed è la pazienza di una lunga esperienza di costruzione, non solo il coraggio, che oggi consente ai nostri compagni del PO e della sinistra rivoluzionaria argentina di incrociare l'ascesa del movimento operaio del loro paese e di diventare uno straordinario polo di attrazione per l'avanguardia di classe. Nel successo di oggi c'è il loro lavoro di ieri. Non ci sarebbe questo senza quello.

E questo vale tanto più per noi. Perché noi abbiamo una difficoltà in più, rispetto ai nostri stessi compagni di altri paesi. Che non è solo la nostra giovane età politica come organizzazione indipendente. E' il fatto che in Italia non possiamo appoggiarci su una tradizione marxista rivoluzionaria riconoscibile e riconosciuta nell'avanguardia. Perchè in Italia il filo rosso di Pietro Tresso è stato tagliato e disperso proprio da coloro che avrebbero dovuto coltivarlo. Quel filo lo abbiamo ripreso noi, nelle condizioni più difficili, per ritessere pazientemente la prospettiva della rivoluzione e del suo partito.


Cari compagni, care compagne,

diversi giovani sono entrati o si sono avvicinati al nostro partito nell'ultimo anno. Lo stesso volto di questa platea congressuale è diverso da quello di tre anni fa. E' un fatto importante. E' un investimento nel futuro, ma vorrei dire anche nella memoria del passato.

La storia la scrivono i vincitori, anche all'interno del movimento operaio. Per questo Togliatti e lo stalinismo cancellarono Tresso dalle pagine della memoria dopo averlo cancellato dalle pagine della vita. Mentre ricostruirono un Gramsci a propria immagine e somiglianza, e dunque irriconoscibile a sé stesso.

Ma ,come la storia dimostra, i vincitori non sono mai “per sempre” se quella loro vittoria è costruita sulla menzogna e sull'assassinio.
Sta a noi, e con noi ai marxisti rivoluzionari di tutto il mondo, ricostruire sulle rovine dello stalinismo un'altra storia del movimento operaio. Un'altra storia del suo futuro, e dunque anche un'altra memoria del suo passato, lungo il filo del tempo che non muore.

Walter Bejamin, nello stesso anno in cui Trotsky fu assassinato, scrisse una frase molto bella nelle sue “Tesi sul concetto di Storia”: “La lotta per l'emancipazione non si fa solo in nome del futuro, ma anche in nome delle generazioni passate”.

Sta a noi onorare la memoria della generazione rivoluzionaria di Lenin, di Trotsky, di Gramsci, di Tresso, nell'unico modo possibile: lavorando a ricostruire il loro partito, il partito della rivoluzione, in Italia e nel mondo.

pcl