Blog della sezione di Massa Carrara del Partito Comunista dei Lavoratori

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sabato 10 dicembre 2016

La disfatta del renzismo

Per una soluzione di classe alla crisi della Repubblica

5 Dicembre 2016


Il renzismo ha consumato una autentica disfatta.

La combinazione dell'altissima partecipazione al voto (70%) con la valanga del No (quasi il 60%) offre un'indicazione inequivoca. Il plebiscito della maggioranza silenziosa che Renzi aveva invocato per sé si è capovolto contro di lui e il suo governo. La tendenziale omogeneità della vittoria del No sull'intero territorio nazionale (con la parziale eccezione toscana) rafforza l'imponenza del pronunciamento.

Il populismo di governo e il suo progetto bonapartista conoscono una sconfitta senza ritorno. Il tentativo di sfondamento nell'elettorato di centrodestra nel nome della stabilità politica contro il salto nel buio; il tentativo di incursione nell'elettorato grillino e leghista nel nome del taglio delle poltrone e dei politici contro la casta; la pioggia parallela di mancette elettorali e richiami clientelari nella legge di stabilità; l'occupazione, infine, a reti unificate dei canali della comunicazione pubblica, hanno tutti mancato nel loro insieme il proprio obiettivo. Non è colpa dello spartito in sé, ma del suo interprete. Il renzismo arrivava alla prova decisiva del referendum istituzionale in uno stato di profonda crisi di consenso, registrata da tutti i pronunciamenti elettorali dei due ultimi anni. Una crisi apertasi a partire dallo scontro sociale su Jobs Act e Buona scuola, e poi approfonditasi nella fase successiva. La disfatta referendaria ha confermato e pesantemente aggravato questa crisi.

La disfatta del renzismo e del suo progetto bonapartista è un fatto straordinariamente positivo. Tanto quanto una sua vittoria sarebbe stata catastrofica per i lavoratori. Ma ciò non significa che il pronunciamento di massa del No abbia una valenza politica uniforme. I blocchi sociali interclassisti del populismo di opposizione hanno sostanzialmente tenuto nei propri riferimenti politici, sommandosi contro il governo. Ha tenuto massicciamente il blocco sociale della Lega , come emerge dal voto veneto. Ha tenuto il grosso dell'elettorato di Forza Italia attorno al richiamo di un pur indebolito Berlusconi. Ha tenuto il grosso dell'elettorato grillino, come emerge dal voto nel Sud, a Roma, a Torino. Su questo versante il No ha avuto il marchio di una “pancia di destra”. Ma parallelamente si è espresso contro Renzi un settore di classe lavoratrice legato alla tradizione della sinistra politica e sindacale, nelle sue diverse articolazioni e organizzazioni (CGIL, FIOM, sindacati di base...), e attorno ad esso il grosso di un popolo della sinistra segnato da una cultura democratica e costituzionale con i suoi riferimenti portanti (ANPI): un settore di classe e un popolo compositi che hanno affollato in tante parti d'Italia le iniziative dei comitati del No, con livelli di partecipazione e coinvolgimento spesso sorprendenti. Questo è il versante progressivo del pronunciamento anti-Renzi. Il versante che può e deve assumersi ora la responsabilità di una propria risposta e di una propria soluzione alla crisi politica e istituzionale che la disfatta di Renzi ha aperto.

La disfatta del renzismo segna la sconfitta della Seconda Repubblica. La Riforma costituzionale Renzi-Boschi non era solo il progetto bonapartista dell'uomo solo al comando. Era anche, perciò stesso, l'atteso completamento del lungo processo di riforma istituzionale che dai primi anni Novanta ha investito gli assetti politici e istituzionali della Repubblica, a partire dai comuni e dalle Regioni. Un processo di progressiva costituzionalizzazione di governi di minoranza, grazie al combinato di leggi maggioritarie e potenziamento degli esecutivi. Un processo funzionale allo sviluppo dell'aggressione sociale ai lavoratori e alla lavoratrici, allo smantellamento progressivo dei loro diritti e conquiste, a vantaggio dei profitti padronali e nel quadro dei vincoli UE. Riforma Boschi e Italicum dovevano completare e chiudere la transizione alla Seconda Repubblica, col plauso di tutto il grande capitale, interno e internazionale. Proprio per questo la disfatta di Renzi non è solo la sconfitta di un aspirante Bonaparte. È anche la sconfitta di un lungo corso politico istituzionale.

Per questa stessa ragione il movimento operaio deve porsi all'altezza della crisi che ora si è aperta e indicare la propria soluzione. Autonoma, di classe, totalmente alternativa e contrapposta a quelle prospettate dagli altri soggetti del campo del No.

La crisi politica e istituzionale che si è aperta vede in campo, da protagonisti, diversi avversari della classe lavoratrice. La presidenza della Repubblica cercherà di incardinare una soluzione di governo che regga la pressione del capitale finanziario, tamponi la crisi delle banche, conduca in porto una legge di stabilità che regala altri 20 miliardi a imprese e banche, gestisca il negoziato nella UE, istruisca in un parlamento assai più instabile una nuova legge elettorale che garantisca “governabilità” (antioperaia). Non sarà facile. Intanto, sul fronte del No ogni soggetto dispiega il suo gioco. Ma sempre contro i lavoratori. La Lega di Salvini punta alla rapida scalata del centrodestra con un messaggio trumpista e lepenista, fondato su caccia ai migranti e nazionalismo antieuropeo. Berlusconi punta a recuperare uno spazio negoziale col PD indebolito su legge elettorali, riforma istituzionale, ulteriore detassazione delle imprese. Il M5S invoca elezioni subito, in compagnia della Lega, per provare a capitalizzare a proprio vantaggio la spinta del No, conquistare il potere, e affermare il proprio disegno di Repubblica plebiscitaria via web, che contrappone reddito di cittadinanza alla ripartizione del lavoro, punta all'abolizione dell'Irap, solletica gli umori xenofobi e nazionalisti.

Il movimento operaio non ha nulla a che spartire con questi disegni, tutti mirati contro i suoi interessi sociali. Tutti interessati a costruire sulle rovine del renzismo diverse soluzioni reazionarie.
Al contrario. Di fronte alla bancarotta della Seconda Repubblica, si tratta di battersi per una soluzione operaia della crisi. Una soluzione che volti finalmente pagina. Che chiami in causa le classi dirigenti del Paese, tutti i loro poteri e tutti i loro partiti. Che rivendichi la cancellazione delle leggi antioperaie di trent'anni, a partire dal Jobs Act e Buona scuola. Che ponga al centro dello scontro le ragioni di classe del lavoro, contro ogni loro subordinazione al capitale. Che rivendichi il diritto alla piena rappresentanza proporzionale di queste ragioni, contro ogni loro subordinazione alla governabilità del sistema. È la prospettiva di una repubblica dei lavoratori, basata sulla loro forza e la loro organizzazione. L'unica che possa abolire il debito pubblico verso le banche e nazionalizzarle, espropriare i capitalisti che licenziano ed inquinano, ripartire tra tutti il lavoro attraverso una riduzione generale e progressiva dell'orario di lavoro a parità di paga, cancellare le leggi di precarizzazione del lavoro, sviluppare un grande piano di nuovo lavoro, a partire dal riassetto idrogeologico del territorio e la messa in sicurezza antisismica dell'intero patrimonio edilizio pubblico e privato. Nessuna di queste misure è rinunciabile. Nessuna di esse può essere realizzata dagli avversari dei lavoratori, dentro il quadro capitalistico, dentro la UE. Solo una rottura anticapitalista, solo un governo dei lavoratori può realizzarle.

Proponiamo il più ampio fronte unico di lotta del movimento operaio e delle sue organizzazioni attorno a questo programma indipendente, e a questa autonoma prospettiva politica. E dentro questa prospettiva diciamo con chiarezza che vanno archiviati e respinti gli accordi sindacali a perdere siglati dalla burocrazia sindacale alla vigilia del referendum istituzionale, nel settore privato (metalmeccanici) come nel settore pubblico (pubblico impiego) come nei servizi (igiene ambientale). Regali al padronato per scalare la segreteria CGIL (Landini), regali al governo per compiacere l'unità con la CISL renziana. Regali da revocare, subito, a partire dal No delle assemblee dei lavoratori. Il No a Renzi diventi il No di classe del mondo del lavoro a decenni di sacrifici e umiliazioni. Ora basta. È l'ora di costruire una riscossa. È ora di ripartire da una piattaforma di lotta unificante, da una vertenza generale che l'accompagni, da una mobilitazione prolungata che l'imponga.

Il PCL si batte e si batterà come sempre in ogni lotta per aprire questa pagina nuova.
Partito Comunista dei Lavoratori

giovedì 3 novembre 2016

Quarta Internazionale

La voce del marxismo rivoluzionario al Social Forum dell'Europa centrale e orientale

5 Luglio 2016
Proponiamo la traduzione in italiano del resconto pubblicato su redmed riguardo il Social Forum dell'Europa centrale e orientale.
Durante il Social Forum dell'Europa centrale e orientale, che si è tenuto a Breslavia (Polonia) tra l'11 e il 13 marzo, si è fatta sentire di nuovo la voce del marxismo in questa regione, dove sono stati al potere per quasi cinquant'anni degli stati operai burocratizzati. Ma questa volta il marxismo non è stato rappresentato dallo stalinismo, bensì dal marxismo rivoluzionario.
A Breslavia, la quarta più grande città polacca, il forum è incominciato con l'evento d'apertura dell'11 marzo. Insieme ai paesi centro-orientali come Polonia, Russia, Bielorussia, Ucraina, Germania, Repubblica Ceca e Ungheria, sono stati rappresentati vari paesi balcanici, Hong Kong, gli Usa e persino il Camerun . Anche il Partito dei Lavoratori Rivoluzionari (DIP) e il nostro partito fratello, l'EEK (il Partito Rivoluzionario dei Lavoratori), sezione greca del CRQI (Il Coordinamento per la Rifondazione della Quarta Internazionale), erano fra i partecipanti.



L'incontro inaugurale



All'incontro inaugurale l'economista marxista franco-egiziano Samir Amin, direttore del “Third World Forum”, ha tenuto il primo intervento via Skype. Ha discusso dell'importanza della lotta dei movimenti sociali. Dopo Amin, Kontantina Kouneva, parlamentare europea, ha preso la parola. Anii fa, Kuneva è stata attaccata da un assalito diretto dai padroni mentre stava organizzando la sindacalizzazione degli addetti alle pulizie in Grecia, dove lavorava come rifugiata bulgara. Ha indicato come le rivoluzioni arabe stessero rifluendo a casa dell'intervento imperialista, e di come l'UE attraversi una profonda crisi. Ha sottolineato poi come l'UE sia su un terreno scivoloso per quanto riguarda la cosiddetta “Brexit” e la sospensione di fatto di Schengen. Secondo Kouneva, si è stabilito su tutta l'UE un “equilibrio del terrore” con l'ascesa del fascismo e di politiche di destra da una parte, e l'ascesa della sinistra dall'altra.



Mazin Qumsiyeh, scienziato palestinese e direttore del Museo di Storia Naturale della Palestina, ha parlato via Skype, dal momento che lo Stato polacco gli ha negato il visto. Ha descritto le sfide che il popolo palestinese ha affrontato sin dalla Nakba. Ha affermato che il sionismo sia destinato alla sconfitto, come successo al nazismo e all'apartheid, perché contrario alla natura umana. Ponendo l'enfasi sull'importanza della comunità internazionale nella lotta contro il sionismo, ha invitato tutti i partecipanti a unirsi al Movimento BDS (Boicotta, Disinvesti, Sanziona): il DIP (Partito Rivoluzionario dei Lavoratori) partecipa attivamente nel BDS turco.
Michael Collon, giornalista e scrittore belga, ha affermato che le tesi del “nuovo ordine mondiale” e della “fine della storia” sono collassate, e che le guerre imperialiste di oggi si presentano come proxy wars [guerre per interposta persona]. L'ultimo oratore è stato un rappresentante dell'ANAC (American National Anti-War Coalition) [Coalizione Nazionale Americana contro la Guerra]. Ha affermato che gli USA si trovano alla radice di ogni problema della regione, dalla crisi economica alla crisi dei profughi, e che la loro organizzazione stia combattendo contro tutte le guerre che gli USA conducono. Dopo il concerto ad opera di un partecipante bulgaro, la prima giornata del forum è terminata.


Diversità del forum



Durante i due giorni seguenti si sono tenute numerose sessioni plenarie e seminari su svariati temi. Tra i temi discussi ci sono stati la militarizzazione dell'Europa centro-orientale, il ruolo della NATO, la crescita del nazionalismo e del fascismo nella regione, l'interazione del femminismo con altre lotte sociali, le conseguenze negative del collasso degli stati operai burocratizzati, la periferizzazione dell'Europa orientale, le lotte dei lavoratori, sindacali e dei movimenti sociali, la reazione dell'Europa orientale all'influsso dei rifugiati/immigrati, così come le lotte imminenti e la questione del programma politico. Lo scopo delle sessioni era sollevare coscienza politica in Europa orientale e sul programma della Federazione Balcanica.



Il culmine della prima sessione, dedicata alle politiche volte alla sottomissione dell'Europa orientale all'UE e alla NATO, è stato il discorso sul Massacro di Odessa. In questo orrendo macello accaduto il 2 maggio 2014, circa due mesi dopo i fatti di Maidan, dei fascisti hanno ucciso 44 militanti di sinistra dando fuoco alla casa del sindacato a Odessa, in Ucraina. Questo massacro è stato un emblema dell'emergere della reazione e del fascismo in Europa orientale. Regimi oppressivi, proprio come quello che l'AKP sta cercando di stabilire in Turchia, si sono consolidati in Ungheria e in Polonia. Oltre a JobbiK, il partito dichiaratamente nazista secondo alle recenti elezioni ungheresi, nei giorni di svolgimento del forum un partito filo-nazista in Slovacchia ha ottenuto circa il 10% dei voti.



In ogni caso, il progetto imperialista di conquista dell'Europa orientale fronteggia profonde contraddizioni. L'espressione più chiara di ciò è il fatto che lo sforzo dell'UE per accaparrarsi l'Ucraina ha portato a una guerra civile in quel paese. Le due “repubbliche popolai” proclamate a Donetsk e Lugansk sono state tra i temi più dibattuti nel dettaglio durante la sessione. Yuri Shanin ha partecipato via Skype dall'Ucraina nella sessione riguardante l'espansione dell'UE e della NATO.



Il collasso degli Stati operai burocratizzati



Una delle sessioni più produttive del forum è stata quella riguardo il collasso degli stati operai burocratizzati i quali hanno dominato per più di quarant'anni l'Europa orientale e i Balcani, e riguardo le conseguenze del loro collasso. Molte degli interventi di questa sessione sono stati eccezionali. Oltre ai due oratori polacchi, oratori dall'Ungheria, dalla Slovenia, dalla Bielorussia e dalla Bulgaria hanno illustrato il processo nei rispettivi paesi nel dettaglio.



È utile riportare alcuni dei punti in comune di questi interventi. Tutti gli oratori, al contrario di ciò che sostengono la borghesia e i rinnegati ex-stalinisti, hanno affermato che durante il periodo degli stati operai burocratizzati l'infrastruttura industriale si è rafforzata e, ancor più importante, che quel periodo fosse inequivocabilmente superiore alla situazione attuale per quanto riguarda i diritti sociali. Hanno spiegato come la povertà sia in aumento in seno alla classe operaia e alle classi sfruttate, così come la disoccupazione in questi paesi, dai quali era sparita per mezzo secolo; le ineguaglianze e altri mali del capitalismo sono emersi dopo il collasso degli stati operai burocratizzati.



In ogni caso, i discorsi hanno registrato una mancanza notevole. La degenerazione burocratica degli Stati operai, che ha portato alla restaurazione del capitalismo e alla ricostituzione della classe capitalista da parte della burocrazia, non è stata affrontata dai relatori. Questa è una delle ragioni per cui un dialogo tra il marxismo rivoluzionario e gli intellettuali di queste società è di importanza vitale.



La lotta per l'emancipazione delle donne



Parallelamente alla sezione sul collasso degli Stati operai burocratizzati, si è tenuta una sessione sull'interazione del femminismo con altre lotte sociale. Oltre agli oratori dalla Tunisia, dalla Polonia e dalla Bielorussia, la nostra compagna Armagan ha tenuto un discorso in nome del Partito Rivoluzionario dei Lavoratori [Turchia]. La nostra compagna, riferendosi alla lotta delle donne in Turchia e in Kurdistan, ha illustrato le necessarie forme di lotta e ha denunciato l'assalto al lavoro femminile, illustrando come la nuova legislazione relativa ai contratti occasionali e alla maternità rendono il lavoro femminile più flessibile e precario. Ha descritto le politiche sessiste e oppressive del governo AKP sulla vita e sui corpi delle donne, e ha trattato la lotta che sta montando contro queste politiche. La compagna ha spigato che la guerra non è una semplice minaccia contro le vite delle donne: le donne hanno sempre pagato il prezzo più alto nel corso della guerra. Ha sottolineato l'orrenda diffusione della violenza contro le donne, e l'importanza della costituzione di organizzazioni di autodifesa. Ha aggiunto che la collera delle donne contro tutte queste aggressioni si è manifestata nella rivolta popolare in seguito a “Gezi Park” e alla lotta delle donne kurde. La compagna ha affermato che l'emancipazione contro il capitalismo a dominazione maschile e contro la barbarie prodotta dai governi reazionari del Medio Oriente può essere ottenuta solo sotto la direzione delle donne proletarie. La sessione di dibattito seguente si è concentrata sul discorso della nostra compagna: quasi tutte le domande sono state indirizzate a lei. Dunque, su suggerimento degli altri oratori, la compagna ha tenuto un secondo discorso di quindici minuti per rispondere alle questione e per presentare così nel dettaglio la sua prospettiva.



Emancipazione con i rifugiati, non dai rifugiati!



Una delle due sessioni parallele della mattina dell'ultimo giorno del Social Forum verteva sulla lotta antifascista e antirazzista nel contesto della questione dei rifugiati. In questa sessione, l'ungherese Matyas Benyik si è concentrato sull'ascesa del partito apertamente nazista Jobbik, e sulla minaccia che queste condizioni politiche costituiscono per i rifugiati. La slovacca Tatyana Ondzikowa ha fatto notare come il governo della Slovacchia sia ostile verso i rifugiati e abbia accettato solo quattro domande d'asilo. Ha detto che lei e la sua organizzazioni stavano conducendo attività solidali coi rifugiati, dal sostegno psicologico a campagne di raccolta fondi. Hermann Dworczak, dall'Austria, ha attirato l'attenzione verso l'ascesa dei partiti fascisti in Europa, affermando anche la necessità di campagne di solidarietà con i rifugiati. Ha affermato che in Austria è stata organizzata una dimostrazione di sessantamila persone in solidarietà ai rifugiati. Ha rimarcato poi il bisogno di un'iniziativa comune in tutta Europa, suggerendo la possibilità di una conferenza sulla questione dei rifugiati.



L'ultima oratrice della sessione di questa sessione è stata Armagan, del DIP turco: ha sottolineato la sua provenienza da un paese dove 800 persone sono morte nel giro di un anno mentre tentavano di lasciarlo per sbarcare in Grecia. Ha spiegato che proprio questa è la tragedia della società capitalista. Ha descritto l'impatto della guerra civile siriana sull'attuale crisi dei rifugiati e sull'abominevole ruolo giocato dal governo AKP e da Erdogan in questa guerra. Ha dichiarato che i rifgiati siriani stanno vivendo e lavorando in condizioni atroci in Turchia, e che questo li ha portati a tentare ogni possibile via per raggiungere l'Europa. Ha spiegato come l'AKP stia usando gli oltre due milioni di rifugiati in Turchia per ricattare l'UE, e di come il destino di milioni di persone venga usato come un asso da giocare nelle trattative segrete tra gli imperialismi dell'UE e l'AKP.



La nostra compagna ha indicato la necessità di connettere le rivendicazioni immediate dei rifugiati, la lotta antifascista e antirazzista con la lotta per il socialismo: fino a che il capitalismo imperialista sussiste, non c'è soluzione reale alla crisi dei rifugiati. Ha concluso dicendo che solo il trionfo mondiale del socialismo risolverebbe il problema, e che quando verrà questo giorno, i popoli viaggeranno non per necessità ma per esplorare nuove e diverse culture di un mondo senza guerre, senza sfruttamento, senza confini e senza classi.



Dibattito sulla prospettiva futura



In generale, diverse sessioni parallele si sono tenute contemporaneamente. Ci sono state unicamente due sessioni plenarie a fine giornata, una il sabato un'altra la domenica. La seconda è stata opportunamente dedicata alla strategia della lotta. Ma il tema non è stato affrontato globalmente così come meritava.



La discussione cruciale ha avuto luogo alla sessione plenaria di sabato: la prospettiva per il futuro è stata discussa in questa sessione. La caratteristica principale di questa sessione è consistita nel non limitarsi all'Europa orientale, nell'estendersi all'Europa occidentale, al Mediterraneo, al Medio Oriente e persino all'Africa, con una ricca prospettiva internazionalista.



Il primo oratore di questa sessione è stato Matyas Benyik, dall'Ungheria: ha descritto la pericolosa situazione politica nel suo paese; nel contesto delle elezioni generali del 2014,. Benard Founou, che ha parlato in nome del “Forum del Terzo Mondo”, fondato dal celebre economista marxista franco-egiziano Samir Amin, ha illustrato l'importanza dell'anti-imperialismo spiegando come l'Africa sia stata forzata a utilizzare tecnologie e prodotti obsoleti sotto la pressione del sistema mondiale. Jan Mayicek dalla Repubblica Ceca ha parlato delle attività del Comitato Anti-TTIP, che si estende in tutta Europa. TTIP è la sigla del trattato di libero scambio e di investimenti in corso di adozione tra le due potenze imperialiste, USA e Ue, giustificato con la retorica degli “interessi nazionali”. Le attività di successo del Comitato Anti-TTIP stanno contribuendo alla creazione di un'opposizione notevole all'accordo tra le masse europee. Thomas Maier del movimento BDS ha parlato a proposito delle attività per la liberazione del popolo palestinese.



Uno degli oratori più impressionanti della sessione è stato il segretario generale dell'EEK, il nostro partito fratello in Grecia. Nel suo coinvolgente discorso, costantemente interrotto da applausi, ha mostrato come le contraddizioni del capitalismo mondiale mettono in connessione le sorti di diverse regioni. Ha indicato come il vasto flusso di immigrati/rifugiati, causato dalle guerre (in primis quella siriana, ma anche quelle in Afghanistan, Iraq, Libia) provocate dall'imperialismo, abbia creato una situazione in cui gli eventi in Europa e nel Medio Oriente si sono condizionati a vicenda. Ha affermato che la tensione tra il blocco USA-UE e la Federazione Russa ha creato una faglia da nord a sud. Ha esposto alcuni dei problemi che contrappongono i due blocchi. Questi problemi vanno dalla consolidazione dell'imperialismo nel Mar Baltico alla concessione del Mare Egeo alla NATO con la scusante del controllo del flusso di rifugiati, al coinvolgimento della Russia nella guerra civile siriana. Matsas ha affermato che l'UE è sull'orlo del collasso, sotto la pressione delle sue contraddizioni; ha concluso il suo discorso con una citazione della grande rivoluzionaria polacca Rosa Luxemburg dicendo che l'unica possibile soluzione è il socialismo internazionalista, che l'unica alternativa è la barbarie.



L'ultimo oratore di questa sessione è stato Sungur Savran del DIP di Turchia. Ha cominciato il suo discorso invitando il pubblico a mostrare solidarietà al popolo kurdo contro il giro di vite al quale è sottoposto come risultato della propria lottà per la libertà. L'applauso che ha ricevuto dalla sala strapiena è stato l'espressione della solidarietà dei presenti verso il popolo kurdo. Nel suo discorso, il nostro compagno ha affermato che il capitalismo sta trascinando l'umanità in una guerra mondiale tramite le crisi economiche e le tendenze barbariche in tutto il mondo (seppure in varie forme), entrambi forme del capitalismo stesso. Ha sottolineato che il pacifismo non può essere la soluzione e che l'unica via per resistere alla tendenza versa una guerra mondiale sarebbe lo scoppio di una guerra di classe e rivoluzionaria. Il nostro compagno ha altresì reso omaggio alle numerose rivolte polacche (1956, 1968, 1970, 1979-81) contro la burocrazia stalinista durante il periodo degli Stati operai burocratizzati, così come ha evocato la più importante rivoluzionaria del ventesimo secolo, Rosa Luxembrurg. Ha infine detto che il socialismo, in opposizione alla barbarie odierna, potrà essere costruito sulla base dell'onda rivoluzionaria partita nel 2011, e che la maggiore colpa ricade sul movimento socialista, completamente confuso sulla questione della costruzione di una avanguardia rivoluzionaria. Ha concluso il suo discorso con un appello alla costruzione di partiti rivoluzionari in tutti i paesi e di un'Internazionale per unire tutti questi partiti.




Diffondere l'internazionalismo nell'Europa orientale



Il Forum Sociale dell'Europa Centrale ed Orientale non è stato un circolo per le chiacchiere tra marxisti rivoluzionari. Questo è evento è stato importante come occasione per l'incontro con forze e con individui coi quali potranno essere portate avanti attività internazionali. Una grande bandiera RedMed ed una bandiera del DIP sono state la prima cosa che i partecipanti potevano osservare nella sala. I militanti del DIP, insieme a quelli dell'EEK, hanno presentato nel loro stand comune le loro pubblicazioni. Inoltre, erano disponibili anche l'ultimo numero del giornale Gerçek (“la Verità”), diversi numeri della nostra rivista teorica Devrimci Marksizm (“Marxismo Rivoluzionario”), alcuni volantini del Partito Rivoluzionario dei Lavoratori. Inizialmente è stato adottato un appello del Congresso Straordinario del Partito Rivoluzionario dei Lavoratori rivolto alle forze internazionali di sinistra, per trasformare la guerra mondiale incombente in una guerra rivoluzionaria di classe. Il secondo appello riguardava la crisi dei profughi. Mentre questi primi due erano formulati in inglese, la terza dichiarazione era sia in turco sia in kurdo: si concentrava sulla guerra contro il popolo kurdo e sulla situazione politica in Kurdistan. Questo scritto bilingue ha attratto l'attenzione di molti dei partecipanti, anche se molti di loro non parlavano né il turco né il kurdo. Alcuni di questi partecipanti erano rimasti molto impressionati dal nostro volantino bilingue e hanno deciso di portarselo in patria per mostrarlo ad amici e compagni. Erano presenti presso il nostro banchetto anche le risoluzioni della Terza Conferenza Euro-Mediterranea del luglio 2015, tenutasi ad Atene. Questa brochure è stata particolarmente apprezzata dai partecipanti provenienti dai paesi dei Balcani.



Nella manifestazione organizzata durante il secondo giorno del Forum, l'EEK e il DIP hanno partecipato sotto la bandiera di RedMed.



Dichiarazione finale



Il Forum Sociale dell'Europa Centrale ed Orientale è stato un evento organizzato da una manciata di persone (Ewa Groszewska, Monika Karbowska, Piotr Lewandonski e Naila Wardi, prima di tutto) con assoluta abnegazione. Ogni aspetto dell'iniziativa mostrava il segno di grandi capacità organizzative. I compagni che hanno affrontato questa coraggiosa impresa meritano i più sinceri complimenti.



L'evento è stato un inizio molto importante per stabilire contatti a livello di Europa centro-orientale e dei Balcani. Varie idee sono circolate al termine del Forum su come procedere in futuro. Ma una cosa è certo: questo lavoro deve essere assolutamente portato avanti.



RedMed


lunedì 3 ottobre 2016

NO alla Costituzione di Renzi

Per un No di classe e anticapitalista al progetto bonapartista del renzismo

30 Settembre 2016
La nostra adesione alla manifestazione del 22 ottobre
renziboschi


Il PCL aderisce al "Coordinamento per il No sociale alla riforma costituzionale" del governo Renzi. E dunque partecipa alla manifestazione nazionale promossa dal Coordinamento per il 22 ottobre a Roma. Un appuntamento importante che impegna da subito tutte le strutture del nostro partito.


UNA RIFORMA ISTITUZIONALE CONTRO IL LAVORO

Il renzismo investe nel referendum istituzionale tutte le proprie forze. Il referendum istituzionale è un passaggio decisivo del progetto bonapartista del renzismo. Un progetto mirato all'"uomo solo al comando" dentro un netto rafforzamento dei poteri del governo e del suo Capo rispetto ad ogni altro potere istituzionale. Ma anche un progetto nitidamente di classe, che mira a tradurre sul piano istituzionale la vittoria sociale del capitale sul lavoro e a determinare un netto rafforzamento delle leve di aggressione sociale ai lavoratori e alle protezioni sociali. Questa è la ragione della convergenza attorno al Sì di tutti i poteri forti del grande capitale, ad ogni livello: italiano, europeo, internazionale.

La Confindustria in particolare sta sviluppando un livello inedito di proiezione attiva attorno al Sì con una campagna squisitamente classista e una pubblicizzazione delle proprie ragioni di classe: maggiore velocità d'attuazione delle misure governative a favore dei profitti, minori intralci parlamentari grazie alla corsia privilegiata per le misure filopadronali dell'esecutivo, eliminazione delle possibili resistenze regionali a vantaggio di grandi opere sventra-Italia. Da qui una mobilitazione straordinaria delle associazioni territoriali di Confindustria.

Il referendum del 4 dicembre è dunque, sotto ogni profilo, un appuntamento dello scontro di classe in Italia.


PASSIVITÀ E DEBOLEZZE NEL FRONTE DEL NO

Alla massima determinazione del fronte padronale non corrisponde una mobilitazione speculare del movimento operaio. Al contrario.

La CGIL ha impiegato mesi di imbarazzato silenzio per approdare finalmente alla indicazione del No. Ma un No in punta di piedi, senza partecipazione ai comitati, senza campagna di reale mobilitazione. Gli accordi con Confindustria attorno alla partita degli ammortizzatori, la ritrovata relazione negoziale col governo sul pessimo terreno delle pensioni (con copertura di fatto alla truffa dell'Ape), i rapporti unitari con la CISL salita sul carro di Renzi e del Sì, rafforzano la passività dell'apparato CGIL proprio nel momento del massimo affondo istituzionale del renzismo. Mentre la burocrazia dirigente della FIOM, impegnata a perseguire un pessimo accordo contrattuale con Federmeccanica, copre Susanna Camusso su tutta la linea. Il risultato è l'assenza di una mobilitazione sociale e di massa contro il governo nei mesi decisivi dello scontro referendario: che significa oltretutto lasciare campo libero a Renzi sul terreno delle mance e delle regalie avvelenate in fatto di Legge di stabilità, con tanto di televendita a reti unificate.

Ma non è tutto. Le sinistre riformiste impegnate sul No si affidano a una gestione del confronto referendario egemonizzata da professori liberalprogressisti, che resta tutta interna ad una dimensione esclusivamente accademico-istituzionale, senza riferimenti sociali e di classe, senza neppure una chiara e netta contrapposizione politica al governo, nel nome di un "confronto esclusivo sul merito": come se fosse possibile separare il merito reazionario della riforma istituzionale dalla natura reazionaria del governo che la promuove. La conseguenza è quella di un confronto tecnico-giuridico da addetti ai lavori, incapace di parlare ai lavoratori e alle grandi masse, proprio nel momento in cui il governo moltiplica annunci di regalie sociali e sventola i quesiti populisti della scheda referendaria sul “taglio di politici e poltrone”.
Dunque una campagna del No estremamente debole nella sua impostazione, spesso ridotta sulla difensiva, impacciata e contorta nei suoi argomenti, esposta al fuoco concentrato della demagogia reazionaria del renzismo.


PER IL PIÙ AMPIO FRONTE UNICO DI CLASSE A SOSTEGNO DEL NO

Per queste ragioni la formazione del Coordinamento per il No sociale alla riforma Renzi è un fatto importante.

È più che mai necessario e urgente contrapporre alla campagna classista di Confindustria a favore del Sì una campagna di classe del movimento operaio a favore del No. Una campagna che dia una riconoscibilità sociale alle ragioni del No agli occhi di milioni di lavoratori e lavoratrici, precari, disoccupati che sono le vittime designate del disegno renziano. Una campagna che punti alla ripresa della mobilitazione sociale e di massa contro il governo e il padronato su una piattaforma indipendente dei lavoratori.

Per questo il Coordinamento per il No sociale non può e non deve ridursi a un cartello di nicchia di piccole forze d'avanguardia, politiche e sindacali. Deve invece investire in un allargamento del fronte di massa, battendosi per il fronte unico più largo di tutte le forze del movimento operaio in contrapposizione al fronte unico governativo padronale. Una proposta e iniziativa di massa che metta pubblicamente di fronte alle proprie responsabilità le direzioni maggioritarie del movimento operaio agli occhi di milioni di lavoratori e lavoratrici: CGIL e FIOM vengano chiamate pubblicamente a mobilitarsi, con una campagna mirata all'interlocuzione con la loro base di massa, che denunci silenzi, ambiguità, defilamenti opportunisti della burocrazia.


PER UN'ALTERNATIVA DI CLASSE ANTICAPITALISTA: L'UNICA CAPACE DI DARE SOVRANITÀ AI LAVORATORI

Parallelamente è necessaria la massima chiarezza e coerenza di merito della campagna di classe del No. Occorre rilanciare una battaglia democratica conseguente per una legge elettorale pienamente proporzionale, attaccando frontalmente quella cultura della governabilità a scapito della rappresentanza che per vent'anni ha pervaso la stessa sinistra cosiddetta radicale (PRC) dentro la logica bipolarista del centrosinistra. Si dica una volta per tutte che il movimento operaio non ha alcun interesse a stabilizzare i governi del padronato! Ha il solo interesse a combatterli con ogni mezzo in una prospettiva di alternativa vera.

Una prospettiva di alternativa vera è chiamata a liberarsi dei retaggi tradizionali della “difesa della Costituzione del 1948” e dell'evocazione del sovranismo nazionale, entrambi purtroppo richiamati nell'appello di convocazione del 22 ottobre.

Il mito della Repubblica fondata sul lavoro è servito a ingannare per sessant'anni il proletariato italiano subordinando alla democrazia borghese tutte le lotte più generose delle masse oppresse. Se oggi la crisi della Repubblica precipita a destra è anche per quella subordinazione costituzionale alla Repubblica borghese che ha rimosso per sessant'anni ogni possibile alternativa di classe a sinistra. Si riconosca finalmente la verità: l'unica possibile repubblica fondata sul lavoro è una Repubblica dei lavoratori, basata sulla loro forza e organizzazione! L'unica Repubblica che rovesciando il capitalismo può liberare i salariati dallo sfruttamento. L'unica che può dare loro la sovranità.

Il sovranismo nazionale evocato nell'appello per il 22 ottobre contro USA, Germania e Bruxelles è mal posto. La sovranità dei lavoratori va rivendicata contro tutti i capitalisti, a partire dai capitalisti tricolore di casa nostra, che come dice un vecchio adagio sono sempre il “nemico principale” da combattere e rovesciare. Tanto più in un paese imperialista come l'Italia, seconda potenza industriale d'Europa, impegnata in prima linea per gli interessi nazionali della propria borghesia nelle missioni di guerra, nelle operazioni in Libia, nel sostegno al sionismo in terra araba, nella crescente penetrazione in Africa (per bloccare le partenze dei migranti e allargare il proprio raggio d'affari). Lasciamo ad altri la bandiera del sovranismo nazionale, in ogni sua declinazione! La lotta contro gli sfruttatori di casa nostra per l'alternativa di potere degli sfruttati è il miglior sostegno alle lotte dei lavoratori degli altri paesi e di tutti i popoli oppressi contro le proprie borghesie e i propri imperialismi.

Con questa impostazione - classista, rivoluzionaria, internazionalista - il PCL sarà parte della manifestazione del 22 ottobre e lavorerà ovunque per la sua massima riuscita.
Partito Comunista dei Lavoratori

domenica 11 settembre 2016

Terremoto: ancora sul crimine del capitale

26 Agosto 2016
Amatrice
Lo riconoscono persino la stampa borghese e la Protezione civile: è stato stanziato per la prevenzione antisismica meno dell'1% di quanto sarebbe necessario (e solo dopo il terremoto dell'Aquila). 950 milioni (ma spesi solo 180) invece di 100 miliardi (ma secondo altre stime sarebbero necessari 360 miliardi). Ciò che la stampa borghese non dice è il perché.

Non si tratta affatto di “disattenzione”, “incuria”, “ negligenza”, come vorrebbe un banale senso comune. O magari della eccessiva “instabilità dei governi”, come ha detto spudoratamente qualcuno, cercando di speculare cinicamente sui morti per portare acqua al mulino del Sì nel referendum istituzionale di Renzi. Si tratta di altro. Si tratta delle regole del gioco della società capitalista. Quelle che tutti i governi hanno “stabilmente” rispettato. Quelle che prevedono l'infusione mensile di 80 miliardi nel portafoglio delle banche per mano della BCE; o il pagamento annuo di 80 miliardi di interessi sul debito pubblico alle banche che hanno comprato i titoli di Stato; o la decontribuzione di 13 miliardi a favore dei capitalisti come “premio” di assunzione di lavoratori licenziabili (Jobs Act); o la continua immancabile riduzione delle tasse per i profitti di impresa (Ires) in ogni legge di stabilità (anche la prossima).
Altro che mancanza di risorse! Le risorse scorrono a fiumi se si tratta del profitto dei capitalisti. Per questo “mancano” se si tratta di risanare un territorio, mettere in sicurezza edifici pubblici e privati, salvare migliaia di vite.

Non è tutto. La lobby nazionale dei costruttori e delle associazioni della proprietà immobiliare ha preteso e ottenuto da tempo la rinuncia all'anagrafe documentale di ogni edificio (fascicolo di fabbricato) in ordine al suo livello di sicurezza. La ragione è semplice: potrebbe significare una svalutazione del capitale immobiliare investito. In altri termini: siccome un edificio è insicuro e può ammazzare chi lo abita o chi intende comprarlo, è bene non rivelarlo a tutela del suo valore di mercato e dunque dell'interesse del proprietario. Può esserci una confessione più spietata dell'incompatibilità del mercato con i valori della vita? Nel frattempo cresce la pressione delle grandi compagnie di assicurazione a favore della assicurazione obbligatoria contro eventi sismici. Di fatto un nuovo lucroso affare privato che scarica sui “cittadini”, in gran parte lavoratori, l'onere dei futuri disastri, a beneficio delle casse pubbliche che potranno così continuare a ingrassare i capitalisti. Una partita di giro perfetta, un banchetto allestito sui morti. Altro che “unità nazionale” di fronte alla tragedia, come ciancia il governo!


Se così stanno le cose - e così stanno - c'è un solo modo di segnare una svolta vera e definitiva rispetto a questa pratica criminale. Rifiutare ogni subordinazione dei bisogni alla dittatura del profitto. Il riassetto idrogeologico del territorio e la messa in sicurezza degli edifici sono la vera “grande opera” necessaria e urgente. Deve pagarla chi non ha mai pagato. Tre sono le misure generali che si impongono:

1) Ogni edificio, pubblico e privato, sull'intero territorio nazionale, va radiografato dal punto di vista della sicurezza antisismica, e dunque pubblicamente catalogato, senza alcun riguardo per le pretese omertose di costruttori e proprietà immobiliare.

2) Vanno stanziate le centinaia di miliardi necessari per la messa in sicurezza dell'intero patrimonio edilizio, non solo pubblico (scuole, ospedali, patrimonio artistico) ma anche privato. Si può finanziare tale misura con l'abolizione del debito pubblico verso le banche, accompagnata dalla loro nazionalizzazione, e con la cancellazione delle regalie fiscali ai capitalisti.

3) Va nazionalizzata la grande industria edilizia e le industrie ad essa collegate (cemento), senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori, per ottenere l'effettivo controllo pubblico sul risanamento edilizio. Ed anche per evitare nuove speculazioni affaristiche sulla stessa ricostruzione delle zone terremotate; o che i “nuovi” edifici con garanzia antisismica crollino alla prima scossa (come è accaduto) perché costruiti al massimo risparmio per il profitto dei costruttori.

Nessuna di queste misure è sacrificabile. Ma non potranno essere realisticamente varate dai comitati d'affari della classe capitalistica, a partire dal governo Renzi. Solo un governo dei lavoratori, capace di rompere con gli interessi dei capitalisti, può risanare il territorio, mettere in sicurezza le case, proteggere le vite, dentro la riorganizzazione radicale dell'intera società in base al primato dei bisogni.
Ricondurre la necessaria mobilitazione immediata per la messa in sicurezza degli edifici alla prospettiva di alternativa di società è l'unico modo di andare concretamente alla radice delle cose. Rinunciare a questa prospettiva significa prenotare la prossima tragedia.
Partito Comunista di Lavoratori

mercoledì 27 luglio 2016

Il golpe turco e le sue conseguenze nello scenario mediorientale

19 Luglio 2016
golpe turchia


Il tentativo di golpe che è andato in scena in Turchia nella notte tra il 15 ed il 16 luglio rappresenta il punto di precipizio di tredici anni di storia recente del paese anatolico avviluppati intorno alla figura di Tayyip Erdogan, fondatore dell'AKP.

Abbandonati da tempo i panni del leader che ha guidato le trattative per l'adesione della Turchia alla UE, Erdogan ha seguito negli ultimi anni, in particolare dall'esplosione della grande crisi nel 2008, una politica costruita intorno all'ambizione di trasformare la Turchia non solo in un interlocutore necessario per le faccende mediorientali, ma in una vera e propria potenza regionale riconosciuta. L'asse portante di questo progetto è la ristrutturazione istituzionale che Erdogan e l'AKP portano avanti da anni, permessa da una decennale espansione economica, e incentrata su una lenta e moderata ma costante islamizzazione dello Stato.
La chiave di volta per lanciare internazionalmente il progetto è stata l'esplosione delle primavere arabe, che Erdogan ha cercato di cavalcare al massimo grado per accreditarsi come guida politica dell'islam sunnita moderato.

Nei confronti dell'Unione Europea, Erdogan ha mantenuto negli anni un atteggiamento opportunista, debuttando come campione dell'europeismo nei primi anni del suo governo quando il progetto UE era ancora sulla cresta dell'onda, ma tendendo a costruire relazioni più vantaggiose, ma non per questo idilliache, con gli stati dell'Unione con cui la Turchia è economicamente più esposta (la Germania è per la Turchia il primo paese per esportazioni ed il secondo per importazioni), più che una vera politica di ingresso.
Con l'avanzare della crisi e l'impasse del progetto dell'UE, la Turchia ha spostato sempre più il proprio baricentro politico verso il Medio Oriente, scontrandosi però con la realtà delle macerie che il fallimento delle rivoluzioni arabe hanno lasciato. Non è un caso che l'ultima fase della politica estera di Erdogan sia stata segnata da una vera e propria spregiudicatezza per quanto concerne la guerra civile siriana: per perseguire il doppio obbiettivo dell'abbattimento di Assad e dello schiacciamento del movimento curdo, il presidente turco non ha esitato a sostenere più o meno indirettamente l'ISIS, in particolare per quello che riguarda la capacità di movimento e di spostamento lungo i confini turchi, cercando in tutti i modi di ostacolare la resistenza curda e aggiungendo all'atavico odio per i curdi il malcelato desiderio di trarre beneficio da una “balcanizzazione” della Siria, strappandone i territori settentrionali.

L'ambizioso progetto di affermarsi come “sultano democratico” ha iniziato a conoscere le prime battute d'arresto con il precipitare nella barbarie delle primavere arabe e con il tracollo, l'uno dopo l'altro, di ciascuno dei suoi alleati nei paesi chiave; dall'affermazione di Al Sisi in Egitto a discapito dei Fratelli Musulmani e di Morsi; dalla perdita del governo del partito di Ennahda in Tunisia fino al precipitare della situazione siriana.
Mano a mano che lo scenario si è andato complicando, Erdogan ha dato prova di straordinario eclettismo tattico e di assenza di scrupoli: nel pieno delle primavere arabe ha giocato la carta obbligata della difesa degli interessi arabi contro Israele, arrivando ad un fronteggiamento di facciata col governo sionista tra il 2008 ed il 2012, periodo che va dalla guerra d'aggressione israeliana a Gaza (Operazione Piombo Fuso) fino all'incidente della Mavi Marmara in cui i commandos israeliani uccisero dieci cittadini turchi sulla nave che tentava di sfidare il blocco di Gaza.
La mancata caduta di Assad e il ruolo sempre maggiore dei curdi nella guerra all'ISIS hanno spinto Erdogan fino a fargli tirare la corda con la Russia di Putin arrivando all'incidente dell'abbattimento del caccia russo. L'isolamento internazionale e il logoramento nei rapporti con tutti i paesi vicini che la sua politica estera da saltimbanco ha prodotto, hanno portato Erdogan a scendere recentemente a più miti consigli, aprendo a un raffreddamento della tensione con la Russia e siglando un accordo storico con Israele al ribasso che è suonato come una vera e propria resa delle ambizioni di guida politica del mondo sunnita.

In uno scenario così complesso, hanno fatto irruzione tre diverse mobilitazioni contro Erdogan e il suo governo, da tre versanti diversi: in prima battuta, l'erompere delle straordinarie e drammatiche settimane della rivolta popolare partita da Gezi Park nel maggio del 2013, e sfociata in un vero e proprio movimento anti-Erdogan, contro le sue leggi liberticide e la sua politica guerrafondaia in Siria. La polizia di Erdogan ha represso ferocemente il movimento, che ha contato anche numerosi morti, ma ha aperto uno squarcio nella solidità e nella credibilità di Erdogan come leader politico nazionale e internazionale agli occhi delle forze imperialiste e dello stesso capitalismo turco.
L'anno successivo, nell'ottobre del 2014, sono i curdi turchi a sollevarsi in una vera e propria intifada che coinvolge tutto il sud-est del paese contro Erdogan, smaccatamente lanciato nella sua politica di sostegno all'ISIS in funzione tanto anti-Assad quanto anti-resistenza curda in Rojava, sotto attacco delle milizie dell'autoproclamato califfato islamico.
A queste due straordinarie rivolte popolari si è sommata tra il maggio ed il giugno del 2015 un'ondata di scioperi selvaggi organizzati dai lavoratori metalmeccanici turchi contro i divieti al diritto di sciopero imposti dal governo a guida AKP, portando, finalmente, delle rivendicazioni propriamente classiste nell'arena politica turca.
Il combinarsi di tutti questi elementi ha arenato le ambizioni del presidente turco e aperto esplicitamente una fase di crisi di consenso anche interno, culminata col l'arretramento elettorale delle elezioni del giugno 2015 e, contemporaneamente, aperto la fase dello stragismo di Stato per tutta la seconda metà del 2015, culminata con la strage del 10 ottobre al corteo per la pace. Le elezioni di fine 2015 consegnano una Turchia spaccata tra il sostegno nuovamente sopra il 50% all'AKP, con tanto di maggioranza parlamentare assoluta (ma non sufficiente per le riforme istituzionali presidenziali desiderate) da un lato, e il mantenimento della rappresentanza parlamentare dell'HDP curdo e la tenuta del partito tradizionale della borghesia europeista turco, il Partito Popolare Repubblicano, sopra il 25%.


IL TENTATIVO DI GOLPE, PUNTO DI PRECIPIZIO DELLA CRISI IN TURCHIA

Al netto dei suoi aspetti tecnici ancora tutti da chiarire, il tentativo di golpe militare andato a vuoto segna una spaccatura netta nella borghesia turca tra il fronte europeista (forse sarebbe più corretto dire “occidentalista”) e il fronte di Erdogan, che a questo punto potremmo chiamare neo-ottomano, stante la fusione di interessi di potenza regionale e islamizzazione delle istituzioni e della società. La politica spericolata di Erdogan, il continuo muoversi sul filo del rasoio nei rapporti con l'Occidente e con l'UE, le disavventure siriane, il raffreddamento della tensione con la Russia e l'altalena con Israele segnano il punto di una fase di enorme destabilizzazione di quello che dovrebbe essere il principale baluardo NATO in Medio Oriente. In questo quadro i golpisti hanno cercato la complicità dell'Occidente: non è un caso che i media internazionali nelle primissime fasi del putsch riportassero dei virgolettati accreditati ai portavoce dei militari che parlavano di “azione per riportare democrazia e libertà”.
La criticità della situazione turca e dei suoi rapporti con il mondo occidentale si misura per intero nelle lunghe ore di ambiguo silenzio che hanno preceduto i primi pronunciamenti formali, con il paradosso dell'aereo presidenziale dato in volo per l'Europa senza che nessuno dei governi amici ne autorizzasse l'atterraggio. Solo quando il quadro si è andato delineando con chiarezza, Obama e Merkel hanno rotto gli indugi prendendo le parti del “governo democraticamente eletto”.
Silenzi che testimoniano quantomeno la volontà di rimanere in un primo momento alla finestra, per capire il da farsi, e che sono indice dell'imbarazzo che il campo occidentale ha nelle sue relazioni con Erdogan. Ma forse anche la malcelata speranza di poter fare i conti con una Turchia stabilizzata senza il suo presidente, e proiettata di nuovo verso l'Europa e l'Occidente, senza più ambizioni “ottomane”.

Tre fattori politici hanno inciso a cascata sul fallimento del golpe: in primo luogo il consenso di massa che Erdogan mantiene in ampi settori di piccola borghesia e di proletariato turco che ha saputo mobilitare in sua difesa, consenso che solo fino a un anno fa sembrava evaporare; in seconda battuta, l'impasse del progetto dell'Unione Europea e l'aggravarsi della sua crisi economica e politica (di cui la Brexit rappresenta l'ultimo tassello in ordine di tempo) hanno enormemente indebolito l'appeal che un progetto di integrazione turca in Europa poteva avere, togliendo ossigeno al fronte occidentalista e kemalista e continuando invece a soffiare il vento, sia pure altalenante, nelle vele dell'AKP - e che è servito esattamente a tenere sotto la brace la base di massa del consenso che si è manifestato nel riversamento in piazza di migliaia di manifestanti a difesa del presidente; in terza battuta, l'irrisolta crisi mediorientale mantiene la Turchia nella condizione privilegiata di essere un ingranaggio fondamentale nell'area malgrado la politica estera da saltimbanco del suo leader, e questo, unito alla debolezza delle alternative politiche borghesi turche, ha fatto sì che dall'Occidente non venisse un immediato via libera - esplicito o meno - al tentativo dei golpisti, fattore che nelle ore decisive ha senz'altro contribuito a limitare l'adesione di altri settori delle stesse forze armate.
Il combinato disposto di questi tre fattori ha contribuito al fallimento del golpe e alla vittoria di Erdogan, che è potuto atterrare all'aeroporto di Istanbul, facendosi salutare da quel bagno di folla che ogni aspirante Bonaparte non può farsi mancare.

L'esito del tentativo di golpe consegna un Erdogan non solo sopravvissuto, ma con un suo straordinario rafforzamento e rilancio politico, almeno nel breve periodo, tanto sul piano interno quanto su quello internazionale.
L’immediata, seppur temporanea, chiusura della base di Incirlik, punto nevralgico delle operazioni americane per la guerra civile siriana, ha fatto da base materiale al braccio di ferro diplomatico che il presidente turco ha subito avviato nei confronti dei suoi formali alleati atlantici, il cui asse è la richiesta agli USA della consegna di Fethullah Gülen, l’ex alleato, poi acerrimo nemico di Erdogan, rifugiato negli States dopo gli scandali per corruzione che dilaniarono l’AKP nel 2013, scandali nei quali Erdogan ha sempre sostenuto essere parte attiva il movimento Hizmet di Gülen.
Tramontato in questa fase il sogno di guidare il mondo arabo sunnita, il presidente turco può tentare di sfruttare l’ossigeno riconquistato sconfiggendo il golpe a partire almeno da due punti cruciali tra loro combinati, su cui può tornare a giocare delle carte importanti.
Dal versante curdo, la simpatia dei governi occidentali che i combattenti del Rojava si sono guadagnati con la forza della loro resistenza in prima fila nella lotta all’ISIS può far emergere i curdi come elemento negoziatore nella regione, con esiti potenzialmente deflagranti nella politica interna turca, anche dopo i lunghi anni di trattative tra il PKK di Ocalan e l’autorità turca, e malgrado la presenza del Kurdistan iracheno a guida Barzani, più interessato a gestire l’estrazione autonoma del petrolio nell’alveo dell’Iraq e a rivenderlo alla stessa Turchia che non a perseguire un progetto di unità nazionale kurda. Un Erdogan redivivo può sperare di imporre un veto a questa possibilità.
L’altro punto riguarda la questione dei migranti e dei profughi, argomento di tensioni già particolarmente acute e sempre crescenti tra Turchia ed UE, in particolare con la Germania; argomento che adesso potrebbe essere utilizzato come arma di ricatto con ancora più vigore.

La straordinaria mobilitazione della sua base sociale di riferimento in sua difesa ha svelato un enorme potenziale plebiscitario cui Erdogan non ha tardato a tentare di dare continuità (l'appello “restate in piazza”), col preciso scopo di consolidare un nuovo rapporto di forza a livello generale che segnerebbe la fine della grande fase di ascesa dei movimenti anti-Erdogan partiti da piazza Taksim, proseguiti con la sommossa kurda di fine 2014 e giunta ai tentativi di alzare la testa da parte della classe operaia industriale turca nel 2015. La crisi di consenso che Erdogan ha incontrato in questo biennio e culminata con la débâcle elettorale delle elezioni del giugno 2015, surrettiziamente arginata nella fase dello stragismo di Stato, ha conosciuto un primo arresto con le ultime elezioni. Oggi questa fase appare chiusa, ed Erdogan può vantare un rinnovato consenso che può essere, e sarà, investito dal presidente turco per completare il proprio disegno istituzionale reazionario, già in buona parte avviato, e che aveva recentemente conosciuto il passaggio dell’abolizione dell’immunità parlamentare, come arma contro le opposizioni: la tanto agognata riforma presidenziale (con annessa guardia pretoriana presidenziale) potrebbe passare attraverso un referendum che rischia di essere plebiscitario e che consegnerebbe ad Erdogan non solo ampio margine di manovra nella stretta autoritaria interna, ma anche la possibilità di presentarsi di nuovo al mondo come garante forzato della democrazia e della stabilità. Tale passaggio conosce in queste ore gli innumerevoli arresti e le purghe di enormi fette di società turca.

Su tutto questo giocheranno ovviamente un ruolo le resistenze sociali e la dinamica della lotta di classe. Lo stato dell'arte di oggi ci consegna importanti lezioni sul ruolo che la sinistra politica e sociale ha giocato negli anni passati, dei suoi errori e dei compiti che attendono i rivoluzionari per invertire la rotta.


IL RUOLO DEI RIVOLUZIONARI

Una stagione straordinariamente difficile si apre in Turchia per i rivoluzionari. Non è dato sapere ancora in che forme la stretta autoritaria di Erdogan ne limiterà ancora di più l’agibilità politica, o se addirittura arriverà a minacciarla per intero. Quello che è certo è che una grande stagione di mobilitazione, apertasi con la rivolta di Gezi Park, si è oggi chiusa. Il rovescio negativo dei due anni, pur straordinari e drammatici, di lotte contro il potere di Erdogan è stata l’assenza del movimento operaio organizzato con le sue proprie forme di lotta dall’arena dello scontro. La ribellione di Gezi Park, nata in prima battuta sull’onda di un movimento ambientalista, si è rapidamente trasformata come reazione alle violenze poliziesche in un grande movimento di massa contro il governo. Questo movimento era caratterizzato da una composizione eterogenea ed interclassista, in cui le rivendicazioni più incisive, come ad esempio quella per uno sciopero generale prolungato sino alla cacciata del governo, non erano sul piatto nelle settimane della mobilitazione, se non come rivendicazioni minoritarie dei marxisti rivoluzionari del DIP (Devrimsci Isci Partisi, Prtito Rivoluzionario dei Lavoratori).
Questa assenza ha impedito al movimento ogni salto qualitativo in avanti e ha concorso ad indebolirlo, prestando il fianco alla reazione poliziesca. L’altro grande assente da Gezi Park, in forma organizzata, è stato il movimento kurdo: sorpresa dall’esplosione della ribellione nel bel mezzo delle trattative per il processo di pace portate avanti da Ocalan e dal PKK, la direzione del movimento kurdo ha preferito non rischiare di mandare a monte il processo in corso e ha scelto un profilo defilato per rimanere marginale nello scontro. Il prezzo pagato dai kurdi per il fatto che Erdogan sia rimasto al potere è stato altissimo: non solo la Turchia ha favorito in tutti i modi possibili l’ISIS, sperando che questo schiacciasse la resistenza di Kobane e della Rojava, ma ha scatenato, a seguito della ribellione kurda del 2014, una vera a propria guerra civile poliziesca contro i suoi stessi cittadini kurdi nel sud-est del paese, di cui l’assedio di Cizre, con decine di morti, feriti, sospensione dell’energia elettrica, shut-down di ogni forma di comunicazione, è l’emblematico sigillo.

Le direzioni della sinistra turca e delle principali organizzazioni kurde non sono esenti da responsabilità per lo stato attuale dei rapporti di forza nell’area. Le sinistre politiche riformiste o centriste, tanto turche quanto kurde, hanno sperato, dopo i risultati del 7 giugno 2015, di poter disarcionare Erdogan investendo elettoralmente le grandi ribellioni degli anni passati. In quei mesi si ventilava l’ipotesi di una grosse koalition turca intorno al partito liberale borghese CHP; un fronte eterogeneo che avrebbe avuto il sostegno più o meno indiretto dell’HDP ma anche delle organizzazioni legate a Fetullah Gulen.
Lo scioglimento del parlamento ad agosto, lo stragismo e il risultato elettorale di novembre, hanno scombinato ancora una volta le carte in tavola, e questo ha probabilmente contribuito a precipitare gli eventi del golpe. In uno scenario la cui complessità è paragonabile solo alla sua drammaticità, il Partito Rivoluzionario dei Lavoratori si è trovato in solitaria ad indicare la strada corretta: gli unici alleati possibili per il popolo kurdo sono il proletariato turco e quello arabo. Non c’è amicizia possibile per i lavoratori turchi e arabi e per il popolo kurdo con le borghesie imperialiste, almeno quanto non c'è possibile amicizia con l’odiato Erdogan e il suo progetto ottomano. Sperare, tanto dentro la Turchia quanto fuori dai suoi confini, che l’imperialismo possa diventare un alleato dei kurdi per riconoscenza, per il ruolo che sostengono nella lotta contro l’ISIS, significa non avere il senso della realtà. La lotta esemplare di resistenza che i combattenti del Rojava oppongono al fascismo islamista di Al Baghdadi e del suo sedicente califfato non può diventare una merce di scambio per sperare di ottenere il favore di qualche benefattore imperialista, giocando sull’incredibile caos in cui è precipitato tutto il Medio Oriente, perché il risultato è facilmente pronosticabile: la svendita della lotta fondamentale per l’emancipazione e per l'unità del Kurdistan.

Eppure le principali direzioni kurde mantengono posizioni con l'imperialismo che oscillano tra l’apertamente colluso e il pericolosamente ambiguo: il PDK di Barzani, al potere nell’Kurdistan irakeno, come detto, è una forza borghese che lavora con il preciso intento di massimizzare i profitti derivati dall’estrazione del petrolio, e in cambio si pone come garante della rimozione della questione nazionale kurda, fungendo al contempo anche come bilanciamento al PKK.
Il PKK, che da par suo è da anni impegnato in un lungo braccio di ferro col governo turco per ottenere un’analoga autonomia federale amministrativa, e la sua propaggine siriana - il PYD - governa la regione del Rojava, dove è impegnato, come detto, nella strenua lotta di prima linea contro l’ISIS. Malgrado ciò, il suo obbiettivo politico in questa fase non è l’unificazione del Kurdistan, né tanto meno lo spezzamento dell’attuale sistema statale e la costruzione di un Kurdistan socialista, bensì l’investimento del peso militare che ha assunto nell’area nella negoziazione di spazi di autonomia federale, rispettosa del capitalismo e della proprietà privata.
Le vicende del proletariato turco, di quello arabo e quelle del popolo kurdo sono intrinsecamente connesse.

La soluzione della questione kurda, la conquista dell’unità nazionale, non può che avvenire se non in un quadro di rottura della geografia che la borghesia ha disegnato per il Medio Oriente addirittura più di cent’anni fa, mettendo in discussione i confini degli stati borghesi esistenti a partire dalla Turchia stessa. Proprio per questo motivo, non esiste alcuno spazio democratico possibile per la soluzione della questione nazionale kurda, esattamente come non esistono spazi democratici di stabilizzazione del Medio Oriente all’interno del capitalismo in crisi.
Da rivoluzionari, siamo completamente a sostegno dell’attività dei compagni del DIP, impegnati nella prospettiva della costruzione dell’alleanza tra la classe operaia turca e il popolo kurdo, unico binomio in grado di squassare le fondamenta dello stato turco.
Il rilancio della prospettiva di una federazione socialista araba, la rivendicazione dell’unità del proletariato turco con quello arabo e la loro alleanza con i popoli oppressi kurdo e palestinese, la messa in discussione dell’esistenza dei confini borghesi e del progetto politico sionista d’Israele, sono i punti cardine fondamentali che indicano l’unica via d’uscita possibile al macello in corso in Medio Oriente.
In questo quadro, la necessità della rifondazione di un partito internazionale della rivoluzione si fa ogni giorno più urgente. È lo strumento che serve al proletariato di tutto il mondo per unirsi nella comune battaglia contro il capitalismo in crisi, contro gli imperialismi di ogni colore che si avventano su ogni lembo di terra per contendersi fino all’ultima unghia di profitto e di potere, contro gli aspiranti tiranni come Erdogan e i tiranni già di fatto come Al Baghdadi.
Il PCL, con tutti i suoi militanti, è impegnato quotidianamente in Italia come sul piano internazionale nella battaglia fondamentale per la rifondazione della Quarta Internazionale.
Nicola Sighinolfi

venerdì 22 luglio 2016

Documento politico conclusivo del Comitato Centrale del PCL di luglio 2016

12 Luglio 2016
CC LUGLIO

  LA NATURA REAZIONARIA DELLA BREXIT.
PER UNA ALTERNATIVA DI CLASSE E SOCIALISTA ALLA UNIONE EUROPEA

La vittoria della Brexit, riflesso della crisi dell'Unione Europea, ha un segno reazionario.
Il No greco alla troika del luglio del 2015 era espressione di un'opposizione sociale di massa, segnata da rivendicazioni di classe e democratiche, poi tradite da Tsipras. La Brexit ha una valenza non solo diversa ma opposta. La campagna pro-Brexit è stata ispirata e diretta da forze reazionarie, apertamente antioperaie e antipopolari, attorno a una campagna centrata sulla contrapposizione ai migranti e sullo sciovinismo britannico. Una campagna che è riuscita a dirottare contro la UE un blocco sociale composito (settori di classe lavoratrice, la maggioranza della popolazione povera delle periferie e delle campagne, ampie fasce di piccola borghesia impoverita) capitalizzando la rabbia sociale prodotta da decenni di austerità e privazioni. La crisi del movimento operaio inglese, dentro la crisi più generale del movimento operaio europeo, ha favorito questo sbocco. Le forze diverse della sinistra che in nome di ragioni progressive o addirittura anticapitaliste hanno sostenuto la Brexit, si sono di fatto subordinate a questa dinamica reazionaria, commettendo un grave errore politico.
L'Unione Europea degli stati capitalisti è irriformabile da un punto di vita sociale e democratico. Le illusioni dell'europeismo riformista (Partito della Sinistra Europea) sono state smentite una volta di più dalla capitolazione di Tsipras alla troika. Ma un'alternativa alla UE può avere carattere progressivo solo a partire da una mobilitazione di classe e di massa che nei diversi paesi e su scala continentale metta in questione le politiche, i partiti, i governi della borghesia. La mobilitazione prolungata e di massa che a partire da marzo ha percorso la Francia contro la Loi Travail di Hollande, incidendo nel profondo sullo scenario sociale e politico francese, indica la possibile alternativa di classe alle soluzioni nazionaliste, reazionarie, xenofobe. La parola d'ordine strategica degli Stati Uniti socialisti d'Europa è la sola che può dare una prospettiva storica progressiva alla necessaria ripresa dell'iniziativa di classe in Europa, contro i governi borghesi e la loro Unione.


I RIFLESSI POLITICI DELLA BREXIT IN EUROPA

La Brexit ha aperto di fatto una fase politica nuova in Europa.
In Gran Bretagna contribuisce a riproporre, per reazione, le questioni nazionali irrisolte di Scozia e Irlanda. Nel continente alimenta tendenze contrastanti. Da un lato sospinge le iniziative composite del fronte reazionario e nazionalista in diversi paesi (Francia, Olanda, Danimarca, Austria) con analoghi contenuti xenofobi e sciovinisti. Ma dall'altro può favorire tendenze alla stabilizzazione politica conservatrice nel nome della “sicurezza contro il caos”, a fronte delle ricadute di crisi economica e bancaria che la Brexit ha alimentato: una campagna che può fare presa in ampi settori popolari e di piccola borghesia in particolare attorno alla difesa del risparmio. Il risultato delle elezioni spagnole, con l'ampia vittoria del Partito Popolare e il mancato sorpasso del PSOE da parte di Podemos, è stato segnato anche dalla reazione alla Brexit. Hollande e Renzi si propongono a loro volta di cavalcare la campagna “sicurezza” nei rispettivi paesi.

Le conseguenze della Brexit sul piano della crisi capitalista e delle relazioni statuali interne all'Unione sono altrettanto complesse e andranno verificate nel tempo.

È presto per valutare se la Brexit potrà aprire una nuova fase di aggravamento della crisi economica internazionale. Di certo, nell'immediato, l'annunciato distacco della Gran Bretagna dalla UE minaccia il sistema bancario europeo, segnato da diversi punti di crisi (crisi delle banche italiane e portoghesi, difficoltà delle banche tedesche e francesi). Il contenzioso sulla Unione bancaria e sulla sua regolazione interna occupa dunque una volta di più il negoziato tra i principali stati capitalisti, sotto il segno di una nuova emergenza economica.
A sua volta il negoziato sulla Unione bancaria ripropone di fatto tutti i nodi irrisolti della crisi della Unione Europea: il fallimento del fiscal compact, le contraddizioni paralizzanti del suo quadro istituzionale, i contrasti tra gli interessi nazionali (come analizzati dall'ultimo CC).
Anche su questo piano il fattore Brexit sembra agire in forme contraddittorie. Da un lato la Brexit è essa stessa un effetto esplosivo delle contraddizioni europee. E per alcuni aspetti le approfondisce. Dall'altro lato proprio l'emergenza prodotta, e l'allontanamento della Gran Bretagna, possono sospingere la ricerca di nuovi equilibri pattizi tra i principali Stati imperialisti europei. Che saranno tuttavia condizionati nel loro esito non solo dai rapporti di forza interstatuali, ma anche dal ristretto margine di manovra dei governi borghesi sul fronte del proprio consenso interno, alla vigilia di appuntamenti elettorali di grande rilevanza (elezioni presidenziali in Francia, elezioni legislative in Germania, referendum istituzionale italiano).


LA SITUAZIONE POLITICA ITALIANA. LA CRISI DEL RENZISMO. LE ELEZIONI DI GIUGNO

La situazione politica italiana si pone in questo quadro generale.

Il renzismo è in aperta crisi. Il progetto del partito della nazione, mirato allo sfondamento elettorale del nuovo corso renziano, ha registrato una sconfitta. I risultati elettorali delle elezioni comunali segnano una perdita consistente del PD in larga parte d'Italia, con una flessione più accentuata nelle periferie metropolitane e nel Mezzogiorno. Il significato politico è chiaro: il renzismo ha esaurito da tempo la spinta propulsiva di quel populismo sociale di governo (operazione '80 euro') che ne aveva accompagnato l'ascesa nelle elezioni europee del 2014. Già le elezioni regionali del 2015 registravano la dispersione di quel patrimonio di consenso. Le elezioni comunali di giugno confermano e aggravano il dato. La sconfitta del renzismo non è solo elettorale, ma politica. Il renzismo si era offerto alla borghesia italiana ed europea come l'argine vincente contro il populismo di opposizione. La vittoria del M5S a Roma e Torino contraddice esattamente quella funzione di contenimento. La stessa legge elettorale (Italicum) coniata da Renzi a misura delle proprie ambizioni di sfondamento rischia di trasformarsi oggi in un possibile strumento dei suoi rivali.

Il Movimento 5 Stelle è il vincitore politico delle elezioni del 5 giugno, al di là del suo stesso risultato elettorale, contraddittorio. Il M5S capitalizza diversi elementi della situazione politica, tra loro connessi. Non solo l'appannamento del renzismo, ma anche la frantumazione politica del centrodestra, con la sua contraddizione irrisolta tra berlusconismo in declino e un asse lepenista che segna il passo. Soprattutto capitalizza la crisi perdurante della sinistra politica, sullo sfondo della crisi sociale e dell'arretramento della lotta di classe. Da qui la sua straordinaria capacità di richiamo trasversale su elettorati di diversa matrice e provenienza, la sua diffusione nazionale (a differenza del salvinismo), il suo consenso concentrato presso la giovane generazione, in particolare tra operai, precari, disoccupati. Ciò che rende il M5S un vincitore naturale nei ballottaggi.
A partire dalla conquista di Roma e Torino, e a fronte della crisi del renzismo, il M5S accelera la propria candidatura al governo nazionale, moltiplicando la ricerca di una propria legittimazione presso gli ambienti dominanti, interni e internazionali. Anche da qui l'importanza della controinformazione classista sulla natura reazionaria di massa del M5S. Una denuncia tanto più essenziale di fronte al moltiplicarsi delle aperture verso il grillismo da parte di settori della sinistra riformista o centrista.

La sinistra politica conferma il proprio stato di crisi. Pur in presenza della crisi del renzismo, Sinistra Italiana ha registrato un arretramento rispetto ai risultati delle liste Tsipras nelle elezioni europee del 2014. Il processo costituente del nuovo soggetto della sinistra è dunque ulteriormente zavorrato dal voto. Persistono tutti i fattori che ostacolano il suo decollo: non solo il peso delle disfatte passate, ma l'assenza di un progetto nazionale dotato di una ragione sociale decifrabile, la mancanza di una leadership riconoscibile a livello popolare, la crisi dei livelli di mobilitazione sociale cui quella stessa sinistra (politica e sindacale) concorre. In questo quadro il rafforzamento del M5S come soggetto attrattivo dell'elettorato in uscita dal PD oltre a rappresentare uno degli effetti della crisi della sinistra concorre ulteriormente ad aggravarla. A tutto ciò si aggiungono la lotta interna di cordate per l'egemonia sul processo costituente del nuovo soggetto (che attraversa la stessa SEL) e i contrasti politici sui nodi irrisolti nel rapporto col PD ed oggi anche con i Cinque Stelle.

In questo quadro generale, marcato dalla crisi congiunta del movimento operaio e della sinistra politica, dall'arretramento della coscienza e dalla espansione populista, il risultato complessivo riportato dal nostro partito, certo molto modesto, non è negativo. A Torino e Napoli abbiamo subito la concorrenza penalizzante della formazione di Rizzo (con l'aggiunta a Napoli dell'effetto particolarissimo del fenomeno “peronista” di De Magistris), ciò che ha determinato risultati negativi. Positivo il dato di Milano (con l'ampio recupero sul 2011), e molto positivo quello di Bologna e Savona (col superamento di ogni risultato precedente). Apprezzabili infine i risultati registrati nei comuni minori. Complessivamente, si conferma la positività della presentazione elettorale del partito ai fini della propaganda del nostro programma classista e anticapitalista e in funzione della nostra costruzione.


IL REFERENDUM ISTITUZIONALE COME SPARTIACQUE

I risultati elettorali di giugno, insieme al fenomeno Brexit, si riverberano sullo scenario politico nazionale di prospettiva. La crisi del renzismo è precipitata alla vigilia del referendum istituzionale (presumibilmente in ottobre) nel quale il capo del governo ha investito le fortune decisive del proprio progetto bonapartista. Da qui l'incertezza accresciuta del suo esito, tanto più in un quadro di crisi economica e di relazioni europee che non favoriscono nuovi margini di finanziamento di misure di populismo sociale (aumento delle pensioni minime, riduzione Irpef...). Al tempo stesso gli effetti di destabilizzazione prodotti dalla vicenda Brexit possono riconfigurare in parte, a determinate condizioni, il profilo della posta in gioco nella percezione popolare (un "voto per la sicurezza" vs l'"avventura dell'ignoto"). Questa è la nuova impostazione che il renzismo tenderà a dare alla prova per cercare di rimontare la china. Un passaggio che in ogni caso acquista oggi obiettivamente una rilevanza internazionale molto maggiore.

L'esito del referendum può costituire, per diversi aspetti, uno spartiacque nella situazione politica italiana, con diverse incognite.

Se Renzi perde lo scontro referendario, sarà il tracollo definitivo del renzismo come progetto populista bonapartista. Ciò che determinerebbe una dinamica nuova, presumibilmente convulsa, di riorganizzazione degli equilibri politici e degli schieramenti, capace di investire formule di governo, legge elettorale, rapporti interni ai partiti (a partire dal PD). Si riproporrebbe, in altre forme, quel quadro di crisi di direzione politica della borghesia italiana che il renzismo ha provato a superare. Il M5S sarebbe nell'immediato il principale beneficiario di quell'esito, anche se paradossalmente privato in quel caso della legge elettorale più idonea per la sua ambizione di potere. Una contraddizione non secondaria.

Se Renzi vincerà lo scontro referendario, si affermerà un nuovo modello istituzionale reazionario, con nuove pesanti ricadute sociali (salto della governabilità antioperaia). Renzi farà leva sulla vittoria plebiscitaria per stabilizzare il proprio corso politico, cercando di sviluppare i suoi aspetti di regime. Al tempo stesso la fluidità dei flussi elettorali, sullo sfondo della crisi sociale, potrebbe ostacolare anche in quel caso l'ambita stabilizzazione politica, a favore di un M5S che uscito sconfitto dal referendum potrebbe beneficiare dell'Italicum che il referendum stesso sancisce. L'ipotesi di una affermazione del M5S alle prossime elezioni politiche, per quanto oggi prematura, non può più essere esclusa dalle prospettive possibili. Ciò che porrebbe nuove incognite non solo al movimento operaio, ma alla stessa borghesia italiana circa la stabilizzazione del proprio quadro politico.


LA CENTRALITÀ DELLA BATTAGLIA CLASSISTA

Su tutto lo scenario politico e sulla variabilità delle prospettive grava la crisi perdurante del movimento operaio italiano. Nessuna variante progressiva è possibile, quale che sia l'esito del referendum, senza una ripresa della mobilitazione sociale, di classe e di massa. Da qui la necessità di ricondurre la nostra battaglia per il No al referendum ad una ragione di classe riconoscibile: combinando la valorizzazione del fronte unico per il No a sinistra (contro ogni logica di separatismo minoritario), con la netta differenziazione politica sia dalle impostazioni puramente accademico-costituzionaliste, sia dalle torsioni populiste (il No "filo-Brexit"). Più in generale l'intero scenario nazionale ed europeo conferma la centralità della battaglia classista, in particolare tra i lavoratori e i giovani, contro tutte le varianti di populismo interclassista, e contro ogni forma di subalternità a sinistra verso il populismo.
Partito Comunista dei Lavoratori - Comitato Centrale

venerdì 1 luglio 2016

UE o Brexit: una falsa alternativa per i lavoratori

L'esito del referendum britannico e la lotta anticapitalista contro l'UE

25 Giugno 2016
Brexit

L'uscita della Gran Bretagna dalla UE apre un nuovo capitolo della crisi dell'Unione degli stati capitalisti del vecchio continente.

Da tempo a cavallo tra integrazione e dissoluzione, la UE ha visto moltiplicarsi nell'ultima fase le spinte disgregatrici. Il combinato della crisi capitalista, della prolungata stagnazione, della profonda crisi di consenso delle politiche di austerità ha sospinto un approfondimento delle contraddizioni nazionali nella UE . Il fiscal compact è virtualmente fallito senza che si delinei un nuovo equilibrio. L'Unione bancaria resta al palo, col rifiuto tedesco di una assicurazione europea sui depositi, mentre l'intero settore bancario europeo è investito da nuovi venti di crisi (crisi dei crediti deteriorati in Italia, crisi dei derivati nella finanza tedesca e nordica). Il riconoscimento o meno della Cina come economia di mercato amplifica il contrasto tra capitalismo tedesco (disponibile) e interesse opposto di Italia e Francia, minacciate sul proprio mercato interno dalla concorrenza asiatica. La pressione migratoria - fattore strutturale di lungo periodo - sospinge processi combinati di rinazionalizzazione dei confini, con la dissoluzione del blocco est-europeo a trazione tedesca e nuovi processi di polarizzazione politica xenofoba all'interno di diversi paesi. Fattore a loro volta di nuove spinte centrifughe e di effetti politici destabilizzanti all'interno dei diversi paesi dell'Unione.

La Brexit è stata un effetto di questo quadro generale di crisi, e al tempo stesso concorre ad approfondirlo.


LA NATURA DELL'OPERAZIONE CAMERON. LA CITY A FAVORE DEL REMAIN

Lo scontro interno alla Gran Bretagna tra “remain” e Brexit ha visto affrontarsi su opposti versanti forze ugualmente nemiche dei lavoratori britannici e dei lavoratori europei. Sia sul fronte politico, sia sul fronte sociale.

Sul fronte politico, David Cameron ha ideato il referendum sull'appartenenza della Gran Bretagna alla Unione Europea in funzione del proprio rafforzamento nel partito conservatore e nel governo, contro i propri avversari interni, lungo la linea di continuità dell'attacco ai lavoratori britannici. Prima la promessa del referendum, poi il negoziato con la UE, infine la campagna a favore del remain brandendo le “concessioni” ottenute in sede UE (contro i diritti sociali degli stessi immigrati comunitari), hanno perseguito un solo obiettivo: incassare il plauso popolare per coronare la propria ambizione politica. La disfatta della cinica operazione ha sancito la fine politica di Cameron, a vantaggio di quegli stessi avversari interni (Boris Johnson) che puntava a sgominare.

Al di là degli scopi politici di Cameron, la campagna per il remain ha selezionato e raccolto attorno a sé il fiore della grande borghesia britannica: il cuore della City londinese, la principale piazza del capitale finanziario europeo; la grande borghesia industriale (l'80% degli aderenti alla Confindustria britannica ha aderito alla campagna); la maggioranza delle Camere di commercio (sia pure con una percentuale minore). La ragione del sostegno borghese maggioritario al remain è molto semplice: la UE rappresenta il 45% delle esportazioni del Regno Unito. Una uscita della Gran Bretagna dalla UE significa la rinegoziazione dell'accesso al mercato unico, in condizioni presumibilmente più difficili.

Per ragioni di classe complementari, la permanenza della Gran Bretagna nel Regno Unito era la speranza del grosso del capitalismo mondiale, delle grandi borghesie europee e dei loro governi nazionali, interessati ad evitare sia i contraccolpi economici della Brexit sul mercato finanziario, in una situazione già critica; sia un nuovo possibile fattore di incoraggiamento delle spinte centrifughe nell'Unione. Ma era la speranza anche degli Stati Uniti, da sempre alleato storico privilegiato della Gran Bretagna. La permanenza del Regno Unito nell'Unione rispondeva a molteplici interessi USA: preservare la principale piattaforma finanziaria delle proprie multinazionali e banche sul mercato europeo; mantenere una propria sponda politica fidata all'interno della UE; favorire una tenuta dell'Unione quale fattore di contenimento della crisi capitalistica mondiale ed anche possibile alleata ai fini del controbilanciamento della potenza cinese (accordi TTIP). Per tutte queste ragioni è indubbio che la vittoria della Brexit contraddice gli interessi dominanti del capitalismo internazionale. Il crollo delle borse di venerdì, proporzionale al loro investimento sulla permanenza nell'UE, è un primo metro di misura del contraccolpo subito.


BREXIT COME VITTORIA DEI LAVORATORI E DELLA DEMOCRAZIA?

Ma è perciò stesso la Brexit una vittoria dei lavoratori e della democrazia?
Colpisce il sostegno entusiasta alla Brexit di forze diverse della sinistra europea (e non solo). Come il tripudio ideologico per la sua "vittoria".

La campagna a favore della Brexit è stata ispirata e diretta dalle forze politiche più reazionarie del panorama inglese. Dallo UKIP xenofobo di Farage, alleato del M5S nel Parlamento europeo. Dai movimenti fascisti della Gran Bretagna. Dalle bande ostili a Cameron nel Partito Conservatore e nel governo stesso. Il tono ideologico della campagna è emblematico. Da un lato la campagna ossessiva contro i migranti: contro gli immigrati comunitari (inclusi i tanti giovani e lavoratori italiani emigrati) e la loro “pretesa” di diritti sociali; e tanto più contro i migranti extracomunitari e la loro presunta “invasione”, a partire dall'immagine simbolo dell'accampamento disperato di Calais, rappresentato come avamposto minaccioso della UE ai confini della patria. Dall'altro, la rivendicazione del peggiore sciovinismo all'insegna della nostalgia del vecchio impero britannico e della grande potenza inglese nel mondo. «Una grande potenza imperiale che potrebbe tornare a risorgere, se solo la gran Bretagna si liberasse della Unione Europea», ha testualmente annunciato Farage.

Anche settori della borghesia inglese si sono allineati al fronte della Brexit, a partire da un consistente settore delle Camere di commercio. Ai quali Boris Johnson si è così rivolto: «Noi potremo fare accordi con le economie emergenti del mondo intero, accordi che la UE è incapace di siglare a causa delle forze protezioniste europee. Liberiamoci delle catene dell'Unione.» (Le Monde). È la (improbabile) promessa al capitalismo britannico di un autonomo aggancio al mercato cinese aggirando l'Unione Europea e il suo contenzioso con la Cina. L'appello al libero mercato mondiale e alla sue umani sorti e progressive si combinava dunque col vezzo ideologico nazionalista, dentro un comune impasto reazionario.


UNA MINACCIA REAZIONARIA CONTRO I LAVORATORI

La vittoria di questo fronte reazionario è una minaccia per i lavoratori britannici e per il movimento operaio europeo.

Certo, un settore di classe lavoratrice e la maggioranza della popolazione povera delle periferie e delle campagne sono stati catturati dalle sirene della Brexit. La rabbia sociale accumulata dalla crisi capitalista e dalle politiche di austerità è stata dirottata con successo contro l'Unione Europea. Il ritorno mitologico alla “vecchia potenza inglese” è stato venduto come canale di riscatto sociale ed emancipazione. Ma si tratta di una cinica truffa, oggi rilanciata su scala continentale da tutti gli ambienti politici più reazionari d'Europa, a partire da Le Pen e Salvini.

Il capitalismo britannico e la sua sovrana sterlina non sono meno responsabili dell'Unione Europea per la miseria crescente dei lavoratori inglesi. Ben prima della UE, fu il governo - nazionalista - di Margaret Thatcher (quello che brandì la guerra all'Argentina sulle Malvinas) a realizzare il grande sfondamento liberista contro il movimento operaio (guerra ai minatori) e l'attacco frontale allo stato sociale. Blair e Cameron, nel quadro della UE (ma fuori dall'Euro), hanno amministrato la continuità devastante di quella politica, che Farage, già nelle vesti di deputato conservatore, e tanto più Boris Johnson, hanno fedelmente e attivamente sostenuto. Oggi proprio Boris Johnson, astro nascente della Brexit, si candida a gestire una nuova pesante stagione di austerità contro i lavoratori inglesi, e una stretta discriminatoria xenofoba contro gli immigrati. Naturalmente nel nome di "Britain First" e della guerra tra poveri. Presentare tutto questo, a sinistra, come "vittoria della democrazia" e come "esempio per i popoli europei" significa aver perso la testa.


CONTRO L'UNIONE EUROPEA, PER GLI STATI UNITI SOCIALISTI D'EUROPA

Siamo da sempre contro l'Unione Europea. Una Unione di stati capitalisti unicamente interessati a partecipare alla spartizione del mondo dopo il crollo dell'URSS, nel nuovo mercato globale. Per questo interessati a concertare le proprie politiche di rapina contro i propri lavoratori. Per la stessa ragione ci siamo sempre opposti e tanto più ci opponiamo oggi alle illusioni di una possibile UE “democratica e sociale”, portate avanti dai partiti di Sinistra Europea (Syriza, Rifondazione Comunista, Izquierda Unida, Die Linke, PCF...). Partiti che si sono ciclicamente compromessi nei diversi governi borghesi dell'Unione Europea gestendo le stesse politiche di austerità e di rapina che dall'opposizione dicevano di combattere. La capitolazione di Tsipras alla troika è solo l'ultimo esempio del fallimento del riformismo europeista.

Ma la lotta contro l'Unione Europea può procedere da opposti versanti, politici e di classe, e mirare ad opposte prospettive.

Può procedere dal versante dell'opposizione di classe del movimento operaio, a difesa delle proprie ragioni e diritti sociali. Come ha mostrato la lunga ascesa del movimento di massa in Grecia contro la troika prima del tradimento di Syriza. Come mostra oggi la mobilitazione di massa prolungata ancora in corso in Francia contro la Loi Travail del governo Hollande. Questa è la dinamica di lotta che ha valore progressivo, che può unire gli sfruttati, che può ricomporre attorno alla classe operaia un blocco sociale anticapitalista, che può alimentare una solidarietà di classe internazionale tra i lavoratori d'Europa. La proposta di una Europa socialista, nella forma degli Stati Uniti socialisti d'Europa, è l'unica proposta strategica capace di dare una prospettiva storica a questa dinamica di lotta. L'unica che può indicare un'alternativa reale all'Unione Europea del capitale, nell'interesse dei lavoratori.

La lotta contro l'Unione Europea e contro l'Euro oggi indicata dalla Brexit, e promossa dai Farage, Le Pen, Salvini, è non solo diversa, ma esattamente opposta. È la lotta che mira a far leva sulla crisi capitalista, e sulla mancata risposta del movimento operaio alla crisi, per costruire uno sbocco reazionario, in ogni paese e su scala continentale. All'insegna della continuità delle politiche di rapina, e di un nuovo drammatico appesantimento dell'offensiva dominante contro i diritti sociali, sindacali, democratici del movimento operaio europeo e di tutti gli oppressi.

Ogni subordinazione a questa dinamica reazionaria va apertamente denunciata e combattuta, tra le fila dei lavoratori, tra i giovani, in ogni organizzazione sindacale e di massa.
Partito Comunista dei Lavoratori

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